mercoledì 11 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte IV)

Spunti di lettura, parte quarta, a proposito del libro di Diego Fusaro, Minima Mercatalia. Il paragrafo è il quarto del capitolo primo (1.4).
In una "mappa" del lavoro si introducono le tre fasi del capitalismo nel "movimento dialettico di assolutizzazione del Capitale" (p.68). 
Val la pena riportare lo schema, sul quale è impostato il paragrafo:
1) fase "tetico-astratta";
2) fase "antitetico-dialettica";
3) fase "sintetico-speculativa"; 
la struttura si giova della ricerca preparatoria di Costanzo Preve, in particolare Storia dell'etica, 2007, che offre a Fusaro lo snodo di partenza per una lettura filosofica in chiave hegeliana del tema tipicamente marxiano del capitale. Già nei precedenti Bentornato Marx! e Essere senza tempo Fusaro si impegnava in un certo senso a realizzare originalmente nella propria ricerca personale ciò che era questo schema impostato per un esercizio di pensiero dialettico in chiave non storicistica, ma viva e attuale, nella fattiva ricerca come filosofia che "apprenda il proprio tempo in pensieri". 
Il paragrafo 1.4 offre sommariamente l'introduzione per il contenuto che sarà sviluppato, secondo le fasi indicate, rispettivamente nei capitoli terzo, quarto e quinto (il secondo sarà dedicato all'interessantissimo tema del limite nel pensiero greco, ricerca essenziale per lo svolgimento del discorso). 
Poiché si tratterà dunque di riprendere tutti questi temi nel corso della lettura, trovo poco interessante anticiparne adesso alcun rilievo o tematizzazione. Preferisco, invece, raccogliere alcuni passaggi meno aderenti al tema specifico del paragrafo, che colpiscono la mia attenzione. 

"l'assolutizzazione del capitale trova la sua massima espressione nel concetto apparentemente anodino di 'globalizzazione', che allude - in modo sia descrittivo, sia prescrittivo - alla costituzione di un mondo liscio, unificato dal 'sensibilmente sovrasensibile' della forma merce", p. 68; 

"Viene così prendendo forma, anche sul piano della legittimazione teorica, la prima società della storia umana in cui l'illimitatezza è assunta come principio normativo fondamentale, nella forma del 'cattivo infinito' dell'accumulazione illimitata del capitale e dell'auri sacra fames. E' il rovesciamento dell'esorcizzazione precapitalistica [...] dell'illimitatezza [...]", p.69; 

"L'opposizione al capitalismo matura non soltanto in ambito materiale (lo scontro di classe tra borghesia e proletariato), ma anche in ambito intellettuale, tramite la genesi della coscienza infelice borghese. Quest'ultima è la lacerante elaborazione, da parte di alcuni frammenti della borghesia, dell'impossibilità di conciliare i propri valori emancipativi universali con lo sfruttamento schiavistico proprio del capitalismo", p.71; 

"si è dissolta la coscienza infelice e, in luogo della classe dialettica della borghesia, è subentrata una classe globalizzata che non è più borghese ma ultracapitalistica, propensa ad accettare disinvoltamente il 'politeismo dei valori' e degli stili di vita all'interno della gabbia d'acciaio del monoteismo del mercato.", pp.73-74

Da questi frammenti asistematicamente raccolti è possibile cominciare a cogliere il senso dell'assolutizzazione del capitale per come concepita nella struttura del lavoro. Si tratta di qualcosa che, ben lungi dal coincidere con occasioni estemporanee ed eccezionali di un improvviso ed inatteso stato di emergenza economica (come la chiacchiera martellante della "crisi" mediaticamente coltivata e sbandierata tenderebbe ad indurre a credere), affonda solidissime radici in una struttura ontologica, logica e teorica preparata per secoli nell'epoca della cosiddetta modernità (non a caso si evoca il riferimento alla concenzione hobbesiana dell'homo homini lupus come tratto tipico di uno stato di natura "umano", M.M. p.69). 
Un modo di concepire l'uomo, i suoi rapporti interumani, ecologici, politici, economici, di un certo tipo, che il lavoro di Fusaro aiuta a cogliere, porta via via a credere in un unico credo, accettato come totalmente incontestabile: ciò che si chiama nel lavoro monoteismo di mercato (p.74). 
Questo tipo di "capitalismo", spacciato come unica autentica ed essenziale forma (mercatile) di qualunque concetto di "economia", lungi dall'essere una scienza, o un pensiero, una teoria... è, nel tempo del crollo di ogni fede, in realtà nient'altro che la fede più salda e radicata che l'uomo occidentale possa conoscere, adottare, professare, testimoniare e vivere. 
La stessa istruzione ed educazione di un qualunque individuo italiano medio negli Anni '80-'90 del secolo appena passato, se vi si pone mente, appare infarcita della catechizzazione fin dalla culla sotto il segno di questa fede radicatissima e consolidata.
Dalla casa, al cibo, agli abiti, agli intrattenimenti, alla scuola, ogni cosa ci si è presentata, senza troppo sconcerto da parte nostra, con il cartellino del prezzo attaccato: paga, e fa' ciò che vuoi. Gli affetti familiari più o meno pacificamente tradotti in costi  e spese per il mantenimento e l'assicurazione del "benessere" - ti abbiamo fatto la cameretta, ti abbiamo comprato il computer; il papà lavora tanto; la mamma te lo compra se fai il bravo... "Studia, con quello che pago la tua istruzione". Il benessere si accompagna in questo quadro squallidissimo nient'affatto con la placida sicurezza dell'aver garantito il necessario, ma con l'ossessione costantemente coltivata e ravvivata di perdere il superfluo
Centri commerciali sorti come templi aggregatori di culti e tributi resti da ogni adepto e da ogni direzione - per tutti, giovani, vecchi, sani, malati, lavoratori, disoccupati...- hanno popolato periferie e centri storici con uguale melliflua ferocia. 
La religione in ogni forma doveva apparirci burletta, salvo qualificarci alla stregua di bigotti o fondamentalisti - se non che, mentre si doveva arrossire del frequentare una parrocchia di zona, se non con solide motivazioni ideologiche o con un fondo di certo e sprezzante disdegno, d'altra parte ogni bestemmia contro la sacralità dei soldi (che devono esserci, che mancano, che si devono fare ad ogni costo) era guardata con la gelida ferocia di chi non può ammettere che non si accetti che le cose stanno come stanno
Tutto ciò che non costa, nella fine di quel "nostro" secolo, non vale niente (allora i parchi pubblici, e noto che le cose stanno molto diversamente adesso, erano luogo di nessuno in quanto "di tutti", e trattati peggio di una discarica o uno sfasciacarrozze). Tutto ciò che è gratis lo è solo a fini promozionali, perché nessuno dà niente per niente. La gratuità o è un invito al consumo futuro, ovvero è segno della misera qualità di ciò che non costa. Tutto ciò che costa caro è l'ottimo, il meglio - per poi diventare l'unica cosa che conta: "sapessi quanto l'ho pagato!"; "quello non costa niente, è una schifezza".
Fusaro rende bene lo sconcerto e la violenza che caratterizzano questo squallore di fine secolo e il suo restyling da nuovo millennio nel suo Essere senza tempo. In Minima Mercatalia  si dedica più specificamente all'analisi filosofica del pensiero che si è accompagnato con questo fenomeno. In questo senso promette di aiutare la riflessione orientata ad una pratica viva, molto più che ad una descrizione di una situazione.
In questo mondo strano e "globale", che cerca di liquidare ogni coscienza infelice sotto lo stordimento della promessa di un parco-giochi senza difetto garantito per tutto il tempo a venire, la nuova global class deve perdere il senso di ogni contraddizione: lo sfruttato appare via via o come un estraneo, o come qualcuno che se l'è voluta, o come qualcuno di meno fortunato per il quale tuttavia il proprio stesso personale stile di vita ed incremento continuo di ricchezza si dovrebbe porre come promessa di un futuro migliore. Il global citizen non consuma più, ma collabora: non nel senso di un bieco collaborazionismo, bensì con l'idea che ogni sua spesa, spreco, capriccio in realtà tenga in moto il miglioramento del mondo: mentre spendi con il cellulare sostieni con un sms un'associazione benefica, mentre ti abboffi ad un fast-food o sofisticheggi nello slow-style lasci il resto del conto al progetto per le adozioni a distanza, mentre apri un conto in banca partecipi alla campagna per la costruzione di pozzi d'acqua in zone desertiche, e così via. Peggiore sei, migliore è l'immagine che il mondo mercatilizzato ti costruisce intorno. 
Lungi dal temere che le regole del gioco lo vogliano come un gioco per pochi, ci si stupisce che altri non partecipino, non si capisce perché non saltino a bordo del carrozzone e si ostinino a sopportare pesi dei quali altri pretendono di essersi completamente sbarazzati. Sembra di risentire echeggiare quell'antica battuta, che per il popolo francese in rivolta, affamato di pane, raccomandava di nutrirsi a brioche. 
Se da un lato non si possono mettere in discussione i dogmi da monoteismo di mercato dell'accumulo di risorse (aumento del PIL, crescita dei tassi di interesse, aumento di salari, aumento di benessere...), d'altra parte non si può ambire ad alcun miglioramento o variazione delle condizioni di gestione economica (è, indiscutibilemente, da credere che si tratti del miglior modo possibile: di che ci si vuole lamentare?). "Non c'è più niente da fare."
Chiudo cogliendo con interesse come nella lettura di Fusaro trapeli il senso di una sovrapposizione tra normativo e descrittivo del quale il fenomeno capitalistico totale in quanto monoteismo di mercato si alimenta. Il senso di "illimitatezza" (che si potrà ben studiare con il secondo capitolo del libro), che si coglie alla stregua di un cattivo infinito, è opportunamente indicato (M.M., p.69) come "principio normativo fondamentale": d'altra parte, come si è già ricordato, "l'assolutizzazione del capitale trova la sua massima espressione nel concetto apparentemente anodino di 'globalizzazione', che allude - in modo sia descrittivo, sia prescrittivo - alla costituzione di un mondo liscio, unificato dal 'sensibilmente sovrasensibile' della forma merce" (p. 68) (evidenziazione nostra). Ciò che è in gioco sono, per l'appunto, le regole del gioco stesso: ciò di cui si tratta è da cogliere alla stregua di un "principio normativo", come la summa della regola che imprime uno stato delle cose per come è; la formula, se si vuole, il codice di programmazione della realtà. Cogliere nella sua radicalità il senso di una normatività come principio significa, per l'appunto, che la stessa cosa diventa la considerazione della sua descrizione così come la considerazione della prescrizione della regola alla quale ciò che "è" si deve  attenere. Il punto, sarà opportuno precisarlo in seguito, è che le cose non stanno necessariamentecosì: non necessariamente ciò che di volta in volta si pone come descrizione del reale rintraccia a sua volta autenticamente un principio normativo e, dunque, dalla descrizione di uno stato di cose non consegue per ciò stesso la verità ineluttabile di quello stato, di quell'assetto. Può darsi - Fusaro non lo dimentica mai - che quello che si descrive si voglia far passare per quello che necessariamente deve essere - e, se e quando questo accade, allora occorre dissentire ("Ugocsa non coronat!"), anche garbatamente, ma fermamente (come il Bartleby del "I would prefer not to", ricordato in M.M., pp.37-38) e tornare a distinguere tra ciò che è una descrizione e ciò che è una legge; tra ciò che è uno stato di cose da trasformare e ciò che è un principio universale. Il lavoro continua: "la semplicità che è difficile a farsi" (M.M., p.75; con il rimando alla nota, n.152).

 further readings:

http://www.comunismoecomunita.org/?p=2941 - eccellente introduzione alla dialettica dell'illimitatezza

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