lunedì 30 aprile 2012

Intermezzo alla lettura - Minima Mercatalia


Si sono già indicati alcuni lavori e materiali che "affiancano" Minima mercatalia e la sua lettura. 

Occorre raccoglierli in un breve elenco e procedere quindi ad esaminarli via via singolarmente.


  • Saggio introduttivo, di Andrea Tagliapietra:

Andrea Tagliapietra, Saggio introduttivo. Metafisica e apocalittica del denaro; in Minima mercatalia, pp.9-27 (bibliografia pp.27-28). Le prime pagine del saggio (9-13) sono leggibili su affaritaliani.it.

  • Video di presentazione:

Presentazione presso Libreria Comunardi, Torino:        
         I parte - intervento di Costanzo Preve         
         II parte - intervento di Diego Fusaro       

Presentazione del libro, di Costanzo Preve:
         http://www.youtube.com/watch?v=U2X8VHywzd8 

  • Articolo di Costanzo Preve sulla "dialettica dell'illimitatezza":

http://www.comunismoecomunita.org/?p=2941 - l'eccellente introduzione alla dialettica dell'illimitatezza

giovedì 26 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte IX)


"Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me" (Mt 25,40)
Che cosa c'entra questa citazione evangelica, con una lettura come Minima Mercatalia? 
E' questa la (apparente?) "anomalia" del testo, che va a chiudere il secondo capitolo di Minima Mercatalia con quello che abbiamo chiamato già precedentemente (parte VI) un "finale a sorpresa". Sorpresa, come si preciserà e come si è accennato, in fondo solo "parziale".
La citazione qui riportata non è nella stessa identica traduzione di quella indicata in Minima Mercatalia (p.143) ma, del resto, il passo è ben noto. 
Il paragrafo 2.5 (La crematistica e il 'mare infinito della disuguaglianza') si conclude (pp.141-143) con un breve ma forte richiamo alla "figura di Gesù" (p.141 ss.).
Questo approdo sorprende solo in parte, se non per altro, almeno perché la "navigazione" di questo ultimo paragrafo vede trattati in primo piano, tra gli altri, i due "giganti" della filosofia, Platone e Aristotele, per poi andare verso una conclusione che riporta il viaggio sui propri passi, verso i territori "nostri" d'"Occidente". Se le radici antiche del pensiero, che Fusaro rintraccia, affondano in terra greca, d'altra parte è proprio il "passaggio alla visione cristiana del mondo" (p.140), veicolato attraverso quel colosso storico-politico che fu l'impero di Roma, a segnare e caratterizzare il prosieguo di questa avventura filosofica.
Fusaro traccia con grande acume sintetico questo passaggio verso una "onto-teo-logia sociale" - che vede "trasferirsi" in "cielo", per restarvi "fino al sorgere della modernità", "l'essere sociale" (p.140). Fusaro richiama brevemente e con efficace riferimento Tommaso Aquinate, con la sua Summa Theologiae, e Guglielmo di Ockham. Questi riferimenti sono tuttavia seguiti, immediatamente prima della chiusura del paragrafo e del capitolo, dalle tre brevi paginette che, tagliando corto su tutti i teorici, commentatori, pensatori, santi etc. succedutigli, radicano i concetti espressi indicando direttamente il cuore del messaggio evangelico. 
Più che il tema - che sorprende poco - è proprio questa struttura a sorprendermi come lettore. Mi sorprende (anche molto positivamente, ma non per questo meno criticamente) perché abbandona del tutto, da ultimo, una struttura ancora di fatto fin qui aderente ad una narrazione storica di tipo cronologico. Dopo aver tracciato il percorso tra i pensatori greci, il discorso fa un balzo in avanti a comprendere, nel pensiero cristiano, tutto il medioevo, fin verso le soglie dell'umanesimo pre-moderno. Di qui, per quel che riguarda i confini del secondo capitolo, nè accenna a procedere, nè rintraccia la cronologia in altri autori o altre opere o fatti storici: semplicemente, riconduce come ad un "punto" il discorso e va a sintetizzare il cuore di tutto il pensiero cristiano nella figura ("punto zero", per nulla a caso, della storiografia occidentale, articolata tra "avanti Cristo", a.C, e "dopo Cristo", d.C.) di Gesù e nelle parole evangeliche.
Il discorso proseguirà, prenderà percorsi di un altro genere, come già preannunciavano i primi paragrafi del libro. Tuttavia, in questo passo l'intero capitolo secondo ("Nulla di troppo. La metafisica greca del limite", pp.87-143) va a chiudersi sulle parole evangeliche, senza ulteriori commenti - in coerente ed elegante osservanza del principio di misura che è argomento di tutto il lavoro. 
In questo modo il paragrafo vede in scena, una all'inizio ed una alla fine, due figure - quella di Socrate e quella di Gesù - accomunate dal fatto che molto se ne è detto e scritto, se ne dice e se ne scrive, e molte parole sono loro attribuite - senza che faccia capo ad essi nessuno scritto attribuito di propria mano.
Tra queste due apparizioni veramente "epifaniche", per così dire, vanno in scena altri greci grandissimi: Protagora, Platone, Aristotele. 
Di Protagora basta già richiamare il concetto dell'"homo mensura", l'uomo misura di tutte le cose (p.128) per avere un'idea del discorso che se ne conduca. 
Per quanto riguarda Platone e Aristotele, è inutile tentare un sunto dei contenuti di questo capitolo, perché anche andando a leggerlo direttamente in Minima Mercatalia, il che non si può che consigliare vivissimamente, la "carrellata" di osservazioni ed evidenziazioni sul rilievo del principio di misura e di giusta limitatezza, ricchissima di spunti, già così chiederebbe se mai di approfondire il discorso attraverso la lettura diretta dei Dialoghi, della Metafisica, dell'Etica.
Nel discorso dedicato ad Aristotele vale la pena richiamare senz'altro la distinzione tra economia e crematistica (pp.136-139). Mentre l'economia, amministrazione della casa, si orienta al soddisfacimento di bisogni finiti per il consumo di una  ristretta e definita comunità, al contrario la "crematistica", accumulo tendenzialmente infinito di ricchezze, è la fame di arricchimento insaziabile e fine a se stessa, vero "cattivo infinito", che tornerà nell'opera. Misura fissata da bisogni finiti e "umani", da una parte, si contrappone, dall'altra, ad un illimitato vortice di falsi bisogni, che rovescia il mezzo per un fine specifico nella perversione di una auto-finalità, un esser di qualcosa fine per se stesso pur travestendosi da mezzo per definizione. La ricchezza priva di qualunque fine al quale possa servire diventa il fine-per-se-stesso che non per questo può elevare a fine il mezzo: il mezzo perde ogni finalità, ma vi si sostituisce per se stesso, nell'esaltazione della vacuità di ciò che per definizione si riduce alla nullità propria dell'in-utile. 
Questo passaggio è evidentemente cruciale e delicatissimo, ma del resto non è esaurito in questo capitolo. Nella lettura potrà giovare ritornarvi. Intanto, va tenuto presente come il discorso si declini, nel pensiero aristotelico, secondo l'immagine forte e ben chiara che contrappone alla crematistica, così stigmatizzata, l'economia in senso proprio. Non può sfuggire: ciò che siamo soliti udir nominare a titolo di "economia" somiglia, stranamente (?), un po' più a quella "cattiva crematistica" (cfr. p.139), "senza limiti", che non all'economia ("normazione della casa", cfr. p.137) in senso proprio. 
Nell'accingersi, ormai, al prosieguo della lettura, con i capitoli successivi, occorre riprendere un momento le fila del discorso.
Ci attende - lo sappiamo - la trattazione del primo momento, della prima fase, della dialettica del capitalismo: la fase "tetico-astratta".
E' ora chiaro, seppure ovviamente tutt'altro che esaurito nella sua discussione, il nesso tra questo discorso che seguirà e la "premessa", ad esso indispensabile, del soggiorno in terra greca che ci ha intrattenuti per tutto il secondo capitolo. Lungi dal porsi quale storicistico preambolo per un radicamento "antico" e meramente suggestivo, il discorso ha dato corpo e "peso", in concreto, al senso da imprimersi al concetto di "misura", di "limite", di limitato-illimitato come contrapposizione in cui cogliere dinamicamente il nesso di equilibrio come "giusto mezzo", "giusta misura". Si tratta - altro aspetto da non dimenticare - di un criterio orientato e com-misurato all'"uomo", all'"umano" in quanto realizzantesi in una dimensione comunitaria, politica in senso comunitario-sociale. 
Il secondo capitolo di Minima Mercatalia, nei suoi cinque paragrafi dei quali si conclude oggi la prima lettura personale "a caldo" qui proposta, conferma, tra le altre aspettative suscitate, anche e soprattutto quella di essere una lettura meritevole di essere ripresa come parte a se stante, come breve saggio sul senso del "limite" e della misura nella cultura e nella filosofia greca. Insieme con il lavoro di Preve e di Andrea Tagliapietra, sempre citati nella bibliografia di Fusaro, nonché con l'appoggio delle altre letture richiamate nella nutrita raccolta di note, è una mappa di partenza ideale per l'orientamento e l'esplorazione dell'argomento. 
Buone letture. 


martedì 24 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte VIII)

Nel paragrafo 2.4 di Minima Mercatalia si ripercorrono le tappe indimenticabili del pensiero greco facenti capo ai grandissimi nomi di Eraclito e Parmenide, per passare quindi a figure quali Democrito ed Empedocle, ed approdare, infine, al "giardino" di Epicuro.
Come sempre, si consiglia una visita al bel sito Filosofico.net per rinfrescare il ricordo - o, perché no, fare la prima conoscenza - di almeno qualcuno di questi nomi.
Il paragrafo, dal titolo "L'etica greca e lo spirito del comunitarismo", continua a seguire il filo del discorso rintracciando il senso della "misura" e del "limite" nel pensiero dell'antica civiltà greca. Questi concetti non sono indagati in astratto, bensì orientati ad una precisa lettura concreta, tenendo per fermo che il riferimento principale per il criterio della misura è l'umano, l'uomo; e, più precisamente, non tanto l'uomo come idea di umanità, nè come individuo a sè, bensì l'essere umano in quanto compartecipe di una dimensione interrelazionale tipicamente comunitaria.
La comunità di riferimento per eccellenza è la pòlis. E' tenendo presente questo spazio comunitario, "politico" per eccellenza, che si dipana il discorso sul senso della misura e del limite come armonia sociale-comunitaria, come "spirito del comunitarismo".
Vero omaggio ai presupposti fondamentali di una struttura squisitamente dialettica, il paragrafo in lettura mi colpisce per l'eccellente evidenziazione di come si possa leggere, criticamente e con metodo rigorosamente non-banale, la relazione istituita nel nesso tra elementi posti in reciproca contrapposizione.
In questo senso, Fusaro può evidenziare come
"le filosofie di Parmenide e di Eraclito possono essere interpretate come due poli in correlazione essenziale di una difesa della comunità dalle insidie dell'illimitatezza, tramite strategie accomunate dal ricorso al lògos" (p.112);
più avanti si osserva d'altra parte che
"La valenza metaforica di tipo socio-politico del poema di Parmenide è peraltro suffragata dal fatto che si tratta del testo filosofico più astratto dell'intero canone occidentale e, insieme, di quello edificato nel modo più massiccio su una descrizione simbolica di luoghi sociali precisi e altamente concreti <.I>[, i]n una compresenza dialettica del massimo del concreto e del massimo dell'astratto [...]" (p.118);
Solo, inoltre, nella prospettiva di "un ristabilimento della vita comunitaria" come "ricomposizione" di "atomi sociali disaggregati",
"può essere intesa l'unitarietà del pensiero di Democrito (460 a.C. - 360 a.C.), apparentemente sospeso tra le due dimensioni inconciliabili del naturalismo meccanicistico e delle splendide massime etiche centrate sulla libertà umana e sul comunitarismo democratico" (p.121);
giungiamo così ad una ulteriore tappa, nel terreno storico dell'Ellenismo, con la sua espansione del "mondo" familiare alla cultura greca oltre i confini noti della "dimensione comunitaria propria della pòlis" (p.124):
"In tal modo, cosmopolitismo e individualismo finiscono con il coesistere in quanto manifestazioni a un tempo opposte e complementari della stessa condizione spirituale: l'esemplificazione di questa aporetica convivenza delle due dimensioni antitetiche dell'universalismo cosmopolitico e del particolarismo comunitario sarà costituita dalla polarità tra la filosofia stoica, con la sua idea di kosmòpolis [...] e quella epicurea, con la riconfigurazione della vita comunitaria entro le mura del Giardino." (pp.124-125); 
ed eccoci all'epilogo di questo "viaggio" di contrapposizioni e ri-composizioni,
"Con 'epoca ellenistica, la verità del mondo greco andrà perduta, polarizzandosi nello 'spazio minimo' dell'interiorità e nello 'spazio massimo' del cosmopolitismo", (p.125).
Le cinque "tappe" di citazioni scelte per questo tratto della lettura permettono di cimentarsi nell'incontro tra speciali coppie di opposti, evocate via via ad ogni passaggio di autore in autore:
con Parmenide si contrappongono il "massimo del concreto" e il "massimo dell'astratto";
con Democrito si contrappongono "naturalismo meccanicistico" e "massime etiche", riferite all'uomo, sulla libertà e sul comunitarismo;
con l'Ellenismo si contrappongono Stoicismo ed Epicureismo, portatori rispettivamente di
          1) cosmopolitismo (stoico) contro individualismo (epicureo);
          2) universalismo contro particolarismo comunitario;
          3) spazio 'massimo' contro spazio 'minimo';
a dare il "la", per così dire, a queste variazioni sul tema della contrapposizione tra limitato e illimitato, tra mutevolezza e immutabilità, sono proprio la considerazione rispettivamente di Parmenide come celebratore, nella descrizione dell'Essere, di ciò che non muta come principio eminente, contro Eraclito, celebratore del fuoco come principio, in quanto, al contrario, eternamente mutevole (ancorché, significativamente, pure sempre conservato uguale a sè in quanto fuoco, cfr.p.114).
Ancora una volta, il testo invita a cogliere l'armonia tra opposti come principio di misura, regola nel nesso che articola e accorda tali opposti reciprocamente. Non l'uno o l'altro può essere sufficiente a rintracciare il bene e il bello che sono propri della giusta misura, bensì con l'uno e con l'altro, compresi dialetticamente, è necessario il tentativo sintetico di cogliere il cuore del discorso filosofico. 





giovedì 19 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte VII)

 

Avvertenza e consiglio - Per la lettura di questo paragrafo e dei seguenti, e in generale per tutta la lettura del secondo capitolo, si consiglia il riferimento a questa pagina della risorsa filosofica online Filosofico.net - link all'argomento I sette sapienti ; link alla pagina-indice per la filosofia greca.

Nel paragrafo 2.3, qui in lettura, compaiono quali figure principali uno dei più noti tra i "Sette sapienti", Solone di Atene; nella seconda parte del capitolo ci si riferisce in modo significativo invece ai Pitagorici e a Pitagora.


In questa lettura continuo ad attenermi al metodo di individuare una o più citazioni significative selezionate secondo un gusto personale "di primo impatto" e possibilmente immediatamente interessanti per una comprensione complessiva dell'argomento. 
Non è facile tuttavia operare una scelta in questo capitolo, ricco di riferimenti molto specifici alla cultura e alla filosofia greca. Una volta di più raccomando dunque, soprattutto per chi ne abbia già una conoscenza almeno superficiale - e, tuttavia, anche per chiunque senta un minimo di curiosità al riguardo - la lettura completa almeno di questo secondo capitolo del libro. 
Si tenga sempre presente il filo conduttore, la chiave di lettura, per così dire, improntata alla questione del giusto mezzo come articolazione tra gli opposti mali dell'illimitato come illimitatamente abbondante e dell'illimitato come illimitatamente scarso - o, con le parole del testo, l'illimitato arricchimento  e l'illimitata povertà. Questo paragrafo 2.3 ci porta con Solone al cuore della pòlis greca, in Atene in particolare, alle prese con la ricerca della regola eminentemente sociale e comunitaria della misura e del limite. 
Varrebbe la pena, ma non se ne tratta qui, soffermarsi sul valore del "logos" greco e sulla triplice valenza del suo significato, resa molto chiaramente e con buona sintesi da Fusaro (M.M., pp.110-111).  
Altri punti concettuali di spicco, dei quali si rimanda eventualmente ad altra occasione la trattazione, sono il concetto di numero e la tavola delle opposizioni diadiche dei pitagorici (M.M., pp.108-110).
Cerchiamo di cogliere ora, con le parole di Fusaro, un "quadro generale" della filosofia greca in relazione con il problema dell'arricchimento e della dinamica iniziale verso una assolutizzazione del principio di arricchimento come principio economico. Il discorso di Fusaro richiama (nota n.207, nel testo) Andrea Tagliapietra, Il dono del filosofo. Sul gesto originario della filosofia, Einaudi, Torino 2009. 

"La storia inaugurata dalla hybris [superbia, in greco nel testo] crematistica come ricerca illimitata dell'arricchimento si affaccia, infatti, sullo scenario storico con i tratti di una costante violazione delle più sacre norme regolatrici dell'ordine naturale e sociale. Si tratta però di una violazione che, anziché essere punita dalla Dike [giustizia; in greco nel testo], è premiata dal successo delle nuove classi in ascesa. La filosofia si origina dunque al cospetto dell'insorgente rischio dell'irruzione dell'àpeiron [illimitato, in greco nel testo] nella vita comunitaria, nel contesto di una sempre più accentuata 'divisione del lavoro' e di una crescente complessità della società nel suo insieme, che manda in frantumi la visione unitaria della sapienza arcaica nelle competenze settoriali delle technai [le arti, le tecniche, in greco nel testo][...]" - Minima Mercatalia, p.105
 L'arricchimento illimitato viene qui ad evocare due principali aspetti interessanti. In primo luogo, si coglie l'occasione per notare di nuovo la chiamata in causa di una idea di giustizia, qui indicata nella "Dike" greca, principio divino che non esprime tanto la legalità, l'aderenza alle leggi giuridiche, quanto piuttosto, ancora una volta, l'aspetto sociale-etico della giusta misura nei comportamenti, del comportamento conveniente secondo il giusto principio che deve sempre essere osservato, in ogni cosa.
In secondo luogo, un rilievo particolare spetta alla seconda parte del passo, nella quale si evocano la "divisione del lavoro", la "crescente complessità della società nel suo insieme", le "competenze settoriali delle technai". 
Questi aspetti restituiscono con una buona impressione di sintesi il quadro di una società nella quale abbia dilagato il "male" del cattivo infinito-àpeiron, dell'illimitatezza
Questi aspetti, in effetti, restituiscono parimenti un'immagine che non appare in nulla diversa dal quadro sconfortante che si tende a dipingere in relazione alla nostra società "occidentale" contemporanea. 
E' chiaro che è proprio nell'effetto di questa "soprendente" (o non tanto?) coincidenza di situazioni che risiede in parte il senso del volgere lo sguardo alla filosofia e alla cultura greca per discutere dell'economia "del nostro tempo". 
La "divisione del lavoro", apparentemente invenzione dell'era industriale con le sue rivoluzioni, assume se mai il carattere di un problema ri-scoperto, oppure di una forma nuova di manifestazione di qualcosa di nient'affatto sconosciuto ad epoche assai più remote. 
Lo stesso dicasi per "la crescente complessità della società nel suo insieme". "Complessità", apparentemente scoperta modaiola dell'ultimo passaggio di secolo/millennio, che vedrebbe ogni campo del sapere affaccendarsi a decifrare vuoi la complessità dei codici biologico-genetici, vuoi l'aumento di interrelazioni sociali in rete, vuoi l'aumento di "emergenze" socio-economiche, di flusso di informazioni, di incertezza - etc. - in un caos che ben poco restituisce di scientifico se letto in sinossi tra le parti, non è forse solo la percezione in forma diversa di un problema nient'affatto nuovo, ed anzi così vecchio che ci saremmo dimenticati come farvi fronte? Se nessuno di questi due atteggiamenti estremi - considerare qualcosa come una novità mai vista vs considerare qualcosa come la solita cosa di sempre, che vale a dire niente di significativo, in termini di vulgata - ha dignità filosofica in sè, l'articolazione e il raffronto tra i due potrebbe ancora una volta aiutare a cogliere qualcosa di significativo. Il nesso tra ciò che appare in una forma del tutto nuova, da una parte, e, dall'altra, ciò che non appare mutare neppure al mutare di tutte le condizioni contingenti, diventa ancora una volta una chiave per cercare di comprendere. 
Passando attraverso questo esercizio si può (razionalmente e filosoficamente) sperare di volgere verso quella "visione unitaria" ("della sapienza arcaica") che si vede mandare "in frantumi" e lacerare nelle settorializzazioni da "idiotismo specialistico" (oggetto della denuncia di Lukàcs che Fusaro richiama altrove nel testo).
Il cuore del tema, tuttavia, non si trova evidentemente in nessuno dei singoli problemi qui rilevati e così stranamente comuni a società, quali la "nostra" e quella "dei Greci", che sarebbero tra loro divise da una così grande lontananza "nel tempo". Il cuore del tema, giova ribadirlo sebbene fin qui non se ne stia facendo chiaramente alcun mistero, si va a trovare a partire dalla questione dell'àpeiron e della sua "irruzione nella vita comunitaria". Ancora più radicalmente, l'illimitato, l'àpeiron, si legge, come tutto il lavoro mira a fare, nella strettissima connessione con il concetto di misura e di limite.
Buone letture!






martedì 17 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte VI)


"A emergere in primo piano è la dimensione socio-politica - tutti i sette sapienti furono anzitutto legislatori comunitari -, nella forma di un'etica che prescrive il 'limite' come norma sociale per evitare i due mali complementari della ricchezza illimitata e dell'illimitata povertà come fonti di dissoluzione della comunità.", M.M.p.97

"Occorre accomiatarsi dall'idea che la filosofia greca sia sorta da una semplice quanto astratta 'meraviglia' [...], per mostrare come, al contrario, essa si configuri come la risposta a problemi di ordine sociale e politico, secondo quanto variamente sostenuto da una costellazione di autori [...]", p.95; "[...]Da questo punto di vista, come subito chiariremo, risulterà decisivo il problema del métron e della metafisica ad esso connessa, nel quadro concreto - socio-politico - della pòlis.", M.M.p.95; 

"Nella formulazione del concetto di métron come regola direttiva della condotta umana in ogni sua determinazione può con diritto essere ravvisato il gesto originario della filosofia.", p.96. 
 Sono a malapena nove paginette a comporre il secondo paragrafo del capitolo 2 di Minima Mercatalia (indice dell'opera consultabile, http://www.filosofico.net/filosss.html): nove paginette talmente dense di contenuti, che le citazioni sopra riportate ne rappresentano, per dare un'idea, una parte su cento. 
Ancora una volta, come sempre in questa lettura, cerchiamo di soffermarci "a caldo" su aspetti che sollecitino una prima riflessione. Non staremo perciò, per quanto potrebbe essere interessante, a richiamare il "sommario" del paragrafo, limitandoci a ricordare che avvia il "viaggio" nella storia (rivisitata) della filosofia greca, con specifici riferimenti, nelle pagine interessate, alle figure di Talete, Chilone di Sparta, Anassimandro.
Due aspetti principali mi colpiscono a rileggere le citazioni proposte. 
In primo luogo, ritorna puntualmente, ed in linea con il paragrafo precedente, il tema del "métron", della misura e del limite, che fa da filo conduttore per tutta l'opera. 
In secondo luogo,  di nuovo rilevo (vedi intervento IV, paragrafo conclusivo) come termini quali "norma" (p.97), "regola direttiva" (p.96), il riferimento ai "sette sapienti" come "legislatori comunitari" (p.97), evidenzino il tema di spicco della normatività in connessione con il discorso trattato, specie in rapporto alla questione di una "risposta a problemi di ordine sociale e politico" (p.95).
Non stupisca lo "spessore" di questi contenuti,  davvero piccolissima parte di quanto si può trovare leggendo anche solo questo semplice paragrafo 2.2 di Minima Mercatalia. 
Il tema della misura è qui richiamato di nuovo attraverso i termini della misura e del limite. Misura e limite ricorrono per riferirsi, come già rilevato, non a qualcosa di astratto, ad un principio di misurazione astratta, bensì, in linea con il nucleo di senso essenziale che pone in strettissima relazione la misura con l'essere umano, a ciò che riguarda per l'appunto l'uomo nella sua dimensione sociale. Si tratta dunque di considerare il concetto di misura in riferimento costante al "quadro concreto - socio-politico - della pòlis" (p.95). 
La "dimensione socio-politica" va qui correttamente associata sia a ciò che abitualmente si ascrive ad una dimensione politico-giuridica, quella dell'attività del "legislatore", sia a ciò che abitualmente si ascrive ad una dimensione "etica". Ben lungi dunque dal porre come branche separate tali aree di svolgimento per un concreto pensiero teorico orientato alla prassi, Fusaro tratta qui il tema evocando il "limite" come "norma sociale". L'attenzione si pone ad un aspetto molto specifico come campo di interesse principale per l'esercizio normativo volto alla ricerca della giusta misura: si tratta del campo della ricchezza, in senso materiale, e del problema di evitare tanto l'arricchimento oltre misura, quanto l'impoverimento al di sotto della misura conveniente: "evitare i due mali complementari della ricchezza illimitata e dell'illimitata povertà come fonti di dissoluzione della comunità" (p.97). Questa espressione, circa i due mali complementari della ricchezza illimitata e dell'illimitata povertà, può già far venire in mente a qualcuno quello che potrà essere in un certo senso il "finale a sorpresa" (sorpresa per così dire parziale) del capitolo, al termine dell'ultimo dei cinque paragrafi (occorrerà qui aspettare ancora tre uscite... o correre avanti nel libro!). Ciò che per ora va notato, per riportare ancora una volta l'attenzione alla banalità rassicurante/inquietante della quotidianità cronachistico-mediatica, è come questa espressione faccia riflettere secondo una prospettiva non banale circa i rilievi e per così dire i proclami concernenti lo squilibrio tra le distribuzioni e concentrazioni di beni materiali tra la popolazione (mondiale, italiana, europea...): statistiche che sembrano scoprire l'acqua calda e divulgare i segreti da Pulcinella del fatto che si stimi che il 10% della popolazione detenga il 90% delle ricchezze di un'area geografica e così via. Questi squilibri che destano scandalo, senza tuttavia smuovere le coscienze, debitamente e  placidamente narcotizzate in via preventiva, non sono l'effetto temporaneo, sorprendente ed eccezionale di una "crisi" (quantomeno strana per la sua cronicità, tra l'altro) sconvolgentemente nuova: si tratta forse di criticità, ma tali da dare evidenza a ciò che, nient'affatto nuovo, costituisce una tra le più profonde e radicali questioni a carattere essenzialmente sociale, politico, comunitario, giuridico, etico ed umano - solo per indicare alcuni ambiti interessati. 
Se questo problema non è niente di nuovo, d'altra parte, in un certo senso è nuova la prospettiva comune secondo la quale sembra guardarsi ad esso. In primo luogo, non si guarda ad esso come a qualcosa di antico (o senza-tempo?), bensì ci si ostina a considerarlo a livello generalizzato come qualcosa di nuovo, sconosciuto e pertanto paralizzante, fatale e ingestibile. In secondo luogo, strettamente contiguo al precedente, non si guarda ad esso come a qualcosa che possa essere preso in considerazione in senso valutativo (che cosa posso fare, io, in questa situazione? Quale atteggiamento e quali azioni conviene adottare? Che cosa conviene che si faccia, che facciamo, io-tu-egli-noi-voi-essi? Foss'anche solo dire "I would prefer not to", a patto di guardarsi dall'agire implicitamente connivente, e in fondo in malafede?): ci si ostina, o ci si rassegna, all'idea che non ci sia niente da fare (aspettare che passi), con ciò intendendo non che non ci sia niente da fare per un certo tipo di problema, e che eventualmente se ne possano almeno risolvere altri, bensì che qualunque problema sia in quanto tale irrisolvibile per effetto della catastrofe universale in atto. 
I due senza-limite evocati, come arricchimento illimitato da una parte, come impoverimento illimitato dall'altra, cominciano a portarci "dentro" l'idea della dinamica dialettica che sarà oggetto di trattazione per i capitoli successivi del libro. Poiché è tra questi estremi in rapporto antitetico, e sulla reciproca tensione tra essi, che si gioca la partita quotidiana dell'esercizio per una giusta misura, è esatto procedere, come in Minima Mercatalia, premettendo la trattazione di ciò che questo giusto medio, in senso rigoroso e non banale, stia a significare. 
Una giusta mediazione si declina secondo la regola della giusta misura, giocata nel métron secondo il rispetto verso il péras, il limite. Il senso di questa misura, non in astratto, ma in concreto, si articola in stretta relazione con ciò che può costituire un nesso tra estremi in tensione reciproca. Così come non si coglie tale nesso senza cominciare a considerare i termini tra i quali esso si instaura, pure anche non si colgono i termini estremi senza iniziare a prendere in considerazione il nesso che li raccorda. Ancora una volta, ciò che oppone, separa, due contrapposti, insieme pure è ciò che li fa parte di un discorso che li riguardi entrambi. Li oppone, li separa: e così li tiene insieme
Niente di facile da capire, qui. Eppure niente di complicato, ancorché complicata ne risulti l'espressione da parte di chi non sappia ancora darne una resa più limpida, più limata. 
Molto di più accorre qui in aiuto Fusaro: il suo lavoro si dipana, via via, senza allontanarsi da questo tipo di vera considerazione, dialettica e reale. 
Ciò che tengo dunque a cogliere, in questi passaggi nella lettura, è il carattere di una misura in relazione con la tensione tra due illimitati, mali "complementari". Qualcosa di "bene", non è l'opposto ad un male: piuttosto, ha a che fare con un punto di equidistanza per così dire "centrale", "centrico", capace di tenersi ugualmente distante da più mali tra essi contrapposti
Ma questo discorso, qui, eccede la misura. 
L'ultima tra le citazioni sopra ("Nella formulazione del concetto di métron come regola direttiva della condotta umana in ogni sua determinazione può con diritto essere ravvisato il gesto originario della filosofia.", p.96. ) ci permette di concludere in chiave di parziale sommario del discorso. Non è qui il caso di riprendere analiticamente il passo come meriterebbe. Si tratta invece di richiamare il concetto di misura, di métron; richiamare la relazione di esso con una concezione normativa di regola; ribadire, tramite il riferimento alla "condotta umana", la dimensione etica a partire dalla centralità dell'"uomo", in una considerazione associata, comunitario-sociale, come senso del politico. Tutto ciò, come "gesto originario della filosofia", ha da ultimo a che fare con il carattere di qualcosa che si de-termina
E - per adesso - rischia di diventare veramente troppo. Se non per altro, almeno per osservare il monito del niente di troppo di Chilone (cfr. Minima Mercatalia, p.96), rimando ogni altra considerazione al prosieguo. Buona lettura, di queste pagine, e, soprattutto, di Minima Mercatalia. 
       

lunedì 16 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte V)


"Il mondo greco presentava, come tratto saliente, la produzione finalizzata al consumo e, più in generale, al soddisfacimento di bisogni umani, per loro natura finiti e limitati", p.91;


"Le citazioni di Hegel e di Marx, sia pure da punti di vista eterogenei, segnalano il métron [*in greco nell'originale] e la centralità dell'uomo con i suoi bisogni finiti come fulcro del mondo dei Greci.", p. 89;
Due citazioni molto brevi, per iniziare la lettura del secondo capitolo di Minima Mercatalia. 
Ricordo subito come utile lettura introduttiva l'articolo di Costanzo Preve sulla dialettica dell'illimitatezza:
 E' proprio dal discorso di Preve che Fusaro trae i primi spunti, come già si è osservato (parte IV di questa lettura), per articolare lo studio dialettico del capitalismo, nelle sue tre fasi. In esse si articola una "dialettica dell'illimitatezza", che si contrappone in quanto tale alla "metafisica greca del limite" a cui Fusaro dedica in Minima Mercatalia questo secondo capitolo (l'indice del libro è consultabile, http://www.filosofico.net/filosss.html). 
Come Fusaro ha già chiarito (MM, p.69), l'illimitatezza "è il rovesciamento dell'esorcizzazione precapitalistica", rappresentata al massimo grado dalla "cultura greca", contro ogni forma di superamento del giusto limite, dell'eccesso oltre la giusta misura (il métron [*in greco nell'originale]). 
Per la trattazione che si propone Fusaro in Minima Mercatalia  è dunque indispensabile ricorrere alla preliminare esposizione di ciò che tale lettura della "metafisica greca del limite" e della misura significhi e comporti: chiarisce dunque ancora Fusaro che "il presente capitolo ci costringerà a un détour", un rivolgimento temporaneo di rotta, per poter far tappa nella Grecia antica, laddove questa storia trae, per così dire, una propria origine. 
Il capitolo percorrerà dunque la storia della filosofia greca secondo un taglio che in parte potrà ricordare, per chi abbia avuto occasione di praticarla, la "storia della filosofia" al primo anno del corso delle scuole superiori. Si tratta però anche di rileggere queste nozioni più o meno note secondo una prospettiva probabilmente diversa da quella che lì per lì potremmo aver incontrato. Parmenide, Aristotele, Socrate, Pitagora; Platone; i "presocratici", o pensatori arcaici (cfr. MM, p. 92), i nomoteti della Grecia antica e classica sono dunque richiamati via via nella lettura che Fusaro ne offre, mettendone in evidenza non solo le caratteristiche congrue con il discorso che traccia, ma anche le incongruenze tra questo tipo di lettura, che li allaccia in un discorso comune, e altre letture forse più diffuse e tuttavia quantomeno in apparenza carenti di coesione in un quadro complessivo.
Si tratta di una lettura improntata alla considerazione che "il cosmo degli antichi Greci [...] si configurò come una totalità espressiva all'insegna della metafisica del métron  e del péras", p.88: una metafisica della misura e del limite, nel senso che tutto il capitolo va a specificare.   
Ecco che si giunge così ad una qualche minima contestualizzazione delle citazioni proposte qui in epigrafe.  Il pensiero espresso si pone in chiara relazione con il pensiero hegeliano e marxiano. Adottando "punti di vista eterogenei" i due pensatori non mancano tuttavia di cogliere entrambi il senso di misura e di "limitato" quale cifra di primissimo rilievo nella cultura greca (cfr. MM, p.89).
Tale principio di misura si caratterizza per il riferimento centrale alla dimensione dell'"umano", dell'uomo in quanto essere-umano. E' "la centralità dell'uomo con i suoi bisogni finiti" ad individuarsi quale "fulcro del mondo dei Greci" (MM, p.89).
E' attraverso questo passaggio fondamentale che si coglie il primo nucleo di senso del lavoro di Fusaro: ben lungi dall'evocare una "misura" puramente astratta, da re-inscriversi tutt'al più nella totalizzante metafisica dell'illimitatezza, il pensiero greco letto da Fusaro consegna un'idea (non troppo platonica, beninteso) di misura dotata non solo di concretezza, bensì pure di una forte componente concettuale orientata precisamente alla vera e propria materialità della quale l'umano in quanto tale si connota. 
Varrebbe già la pena ricordare in quest'ottica un monito di eterogenea provenienza, il "non di solo pane vivrà l'uomo" di sapore evangelico, che insieme ricorda sì come l'uomo si nutra in anima e in spirito del Logos, la divina Parola, il Verbum - e come, tuttavia, in linea con l'annuncio del Verbo incarnato, così come l'uomo non vive di solo pane, neppure, in terra, vive normalmente di sola Parola, ancorché Parola vera, viva, vivificante, divina. L'uomo che non vive di solo pane è quell'"umano" che, pure, ancorché nella sua essenza forse potrebbe vivere della pura Parola eterna divina, tuttavia è in quanto umano propriamente chiamato anche a vivere delle cose terrene, del pane, di ciò che la terra e i viventi incarnati offrono e chiedono. Non di pane soltanto: ma neppure senza
Questo umano veramente incarnato, ancorché non risolto nel proprio solo essere carne, entra presto in risonanza con la lettura della misura che pone l'umano al centro. 
Il cuore della comprensione per le citazioni che si sono proposte è dunque chiarito: ciò che mi importa cogliere, a questo punto della lettura di Minima Mercatalia, è un senso specifico di quei bisogni finiti (p. 89), "bisogni umani, per loro natura finiti e limitati" (p.91) che qui si sono evocati. 
La finitezza di cui si parla, in primo luogo, non si incentra sull'uomo in quanto tale, bensì, prima di tutto, sui suoi bisogni. Se il senso di misura e di limite risponde ad un pensiero ed una cultura a tutto tondo, riguardando dunque ovviamente aspetti ben più ampi, tuttavia è di primissimo piano, per il discorso di Minima Mercatalia, come tale aspetto entri in gioco nel cogliere le dinamiche riguardanti, prima ancora che l'uomo in quanto tale, l'uomo e-i-suoi-bisogni.
Nella citazione proposta (p.91) compaiono altri due termini di non poco interesse: "produzione" e "consumo". Veri campanelli d'allarme. Queste parole non hanno alcun senso - o hanno un senso pessimo - qualora si fraintenda (con dolo o colpa, in mala o in buona fede) la portata del termine "bisogno", "bisogni": portata del termine che è inseparabile dal concetto di misura e di limite che ci dà la possibilità di qualificare il bisogno in quanto limitato e finito.
Non è più mistero per nessuno che stia leggendo, probabilmente, dove stiamo andando a parare, avvicinandoci a concludere: un bisogno insaziabile, inesauribile, infinito è il contrapposto esatto di ciò che fa capo a ciò di cui si è fin qui parlato. Un bisogno sempre in aumento, in crescita, per soddisfare il quale non è mai sufficiente alcuna risorsa che non sia a sua volta capace di crescita, di rialzo, di ingrandimento a progressione esponenziale e a percentuali crescenti, è il contrapposto esatto del bisogno "umano" al quale si rimanda tramite il pensiero "greco". Un bisogno siffatto, in-umano, anti-umano, è tra i presupposti fondamentali - se non il fondamento - della contemporanea "economia", così come ci appare scorrere nella "nostra" cronaca e quotidianità e, senza esagerare, ma generalizzando appena, in tutto ciò che ci riguarda in quanto "uomini del nostro tempo". 
Per una lettura "a-caldo" come questa, basta qui. Ce n'è, da ruminare... 
Almeno fino al prossimo paragrafo. 
Buone letture. 




mercoledì 11 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte IV)

Spunti di lettura, parte quarta, a proposito del libro di Diego Fusaro, Minima Mercatalia. Il paragrafo è il quarto del capitolo primo (1.4).
In una "mappa" del lavoro si introducono le tre fasi del capitalismo nel "movimento dialettico di assolutizzazione del Capitale" (p.68). 
Val la pena riportare lo schema, sul quale è impostato il paragrafo:
1) fase "tetico-astratta";
2) fase "antitetico-dialettica";
3) fase "sintetico-speculativa"; 
la struttura si giova della ricerca preparatoria di Costanzo Preve, in particolare Storia dell'etica, 2007, che offre a Fusaro lo snodo di partenza per una lettura filosofica in chiave hegeliana del tema tipicamente marxiano del capitale. Già nei precedenti Bentornato Marx! e Essere senza tempo Fusaro si impegnava in un certo senso a realizzare originalmente nella propria ricerca personale ciò che era questo schema impostato per un esercizio di pensiero dialettico in chiave non storicistica, ma viva e attuale, nella fattiva ricerca come filosofia che "apprenda il proprio tempo in pensieri". 
Il paragrafo 1.4 offre sommariamente l'introduzione per il contenuto che sarà sviluppato, secondo le fasi indicate, rispettivamente nei capitoli terzo, quarto e quinto (il secondo sarà dedicato all'interessantissimo tema del limite nel pensiero greco, ricerca essenziale per lo svolgimento del discorso). 
Poiché si tratterà dunque di riprendere tutti questi temi nel corso della lettura, trovo poco interessante anticiparne adesso alcun rilievo o tematizzazione. Preferisco, invece, raccogliere alcuni passaggi meno aderenti al tema specifico del paragrafo, che colpiscono la mia attenzione. 

"l'assolutizzazione del capitale trova la sua massima espressione nel concetto apparentemente anodino di 'globalizzazione', che allude - in modo sia descrittivo, sia prescrittivo - alla costituzione di un mondo liscio, unificato dal 'sensibilmente sovrasensibile' della forma merce", p. 68; 

"Viene così prendendo forma, anche sul piano della legittimazione teorica, la prima società della storia umana in cui l'illimitatezza è assunta come principio normativo fondamentale, nella forma del 'cattivo infinito' dell'accumulazione illimitata del capitale e dell'auri sacra fames. E' il rovesciamento dell'esorcizzazione precapitalistica [...] dell'illimitatezza [...]", p.69; 

"L'opposizione al capitalismo matura non soltanto in ambito materiale (lo scontro di classe tra borghesia e proletariato), ma anche in ambito intellettuale, tramite la genesi della coscienza infelice borghese. Quest'ultima è la lacerante elaborazione, da parte di alcuni frammenti della borghesia, dell'impossibilità di conciliare i propri valori emancipativi universali con lo sfruttamento schiavistico proprio del capitalismo", p.71; 

"si è dissolta la coscienza infelice e, in luogo della classe dialettica della borghesia, è subentrata una classe globalizzata che non è più borghese ma ultracapitalistica, propensa ad accettare disinvoltamente il 'politeismo dei valori' e degli stili di vita all'interno della gabbia d'acciaio del monoteismo del mercato.", pp.73-74

Da questi frammenti asistematicamente raccolti è possibile cominciare a cogliere il senso dell'assolutizzazione del capitale per come concepita nella struttura del lavoro. Si tratta di qualcosa che, ben lungi dal coincidere con occasioni estemporanee ed eccezionali di un improvviso ed inatteso stato di emergenza economica (come la chiacchiera martellante della "crisi" mediaticamente coltivata e sbandierata tenderebbe ad indurre a credere), affonda solidissime radici in una struttura ontologica, logica e teorica preparata per secoli nell'epoca della cosiddetta modernità (non a caso si evoca il riferimento alla concenzione hobbesiana dell'homo homini lupus come tratto tipico di uno stato di natura "umano", M.M. p.69). 
Un modo di concepire l'uomo, i suoi rapporti interumani, ecologici, politici, economici, di un certo tipo, che il lavoro di Fusaro aiuta a cogliere, porta via via a credere in un unico credo, accettato come totalmente incontestabile: ciò che si chiama nel lavoro monoteismo di mercato (p.74). 
Questo tipo di "capitalismo", spacciato come unica autentica ed essenziale forma (mercatile) di qualunque concetto di "economia", lungi dall'essere una scienza, o un pensiero, una teoria... è, nel tempo del crollo di ogni fede, in realtà nient'altro che la fede più salda e radicata che l'uomo occidentale possa conoscere, adottare, professare, testimoniare e vivere. 
La stessa istruzione ed educazione di un qualunque individuo italiano medio negli Anni '80-'90 del secolo appena passato, se vi si pone mente, appare infarcita della catechizzazione fin dalla culla sotto il segno di questa fede radicatissima e consolidata.
Dalla casa, al cibo, agli abiti, agli intrattenimenti, alla scuola, ogni cosa ci si è presentata, senza troppo sconcerto da parte nostra, con il cartellino del prezzo attaccato: paga, e fa' ciò che vuoi. Gli affetti familiari più o meno pacificamente tradotti in costi  e spese per il mantenimento e l'assicurazione del "benessere" - ti abbiamo fatto la cameretta, ti abbiamo comprato il computer; il papà lavora tanto; la mamma te lo compra se fai il bravo... "Studia, con quello che pago la tua istruzione". Il benessere si accompagna in questo quadro squallidissimo nient'affatto con la placida sicurezza dell'aver garantito il necessario, ma con l'ossessione costantemente coltivata e ravvivata di perdere il superfluo
Centri commerciali sorti come templi aggregatori di culti e tributi resti da ogni adepto e da ogni direzione - per tutti, giovani, vecchi, sani, malati, lavoratori, disoccupati...- hanno popolato periferie e centri storici con uguale melliflua ferocia. 
La religione in ogni forma doveva apparirci burletta, salvo qualificarci alla stregua di bigotti o fondamentalisti - se non che, mentre si doveva arrossire del frequentare una parrocchia di zona, se non con solide motivazioni ideologiche o con un fondo di certo e sprezzante disdegno, d'altra parte ogni bestemmia contro la sacralità dei soldi (che devono esserci, che mancano, che si devono fare ad ogni costo) era guardata con la gelida ferocia di chi non può ammettere che non si accetti che le cose stanno come stanno
Tutto ciò che non costa, nella fine di quel "nostro" secolo, non vale niente (allora i parchi pubblici, e noto che le cose stanno molto diversamente adesso, erano luogo di nessuno in quanto "di tutti", e trattati peggio di una discarica o uno sfasciacarrozze). Tutto ciò che è gratis lo è solo a fini promozionali, perché nessuno dà niente per niente. La gratuità o è un invito al consumo futuro, ovvero è segno della misera qualità di ciò che non costa. Tutto ciò che costa caro è l'ottimo, il meglio - per poi diventare l'unica cosa che conta: "sapessi quanto l'ho pagato!"; "quello non costa niente, è una schifezza".
Fusaro rende bene lo sconcerto e la violenza che caratterizzano questo squallore di fine secolo e il suo restyling da nuovo millennio nel suo Essere senza tempo. In Minima Mercatalia  si dedica più specificamente all'analisi filosofica del pensiero che si è accompagnato con questo fenomeno. In questo senso promette di aiutare la riflessione orientata ad una pratica viva, molto più che ad una descrizione di una situazione.
In questo mondo strano e "globale", che cerca di liquidare ogni coscienza infelice sotto lo stordimento della promessa di un parco-giochi senza difetto garantito per tutto il tempo a venire, la nuova global class deve perdere il senso di ogni contraddizione: lo sfruttato appare via via o come un estraneo, o come qualcuno che se l'è voluta, o come qualcuno di meno fortunato per il quale tuttavia il proprio stesso personale stile di vita ed incremento continuo di ricchezza si dovrebbe porre come promessa di un futuro migliore. Il global citizen non consuma più, ma collabora: non nel senso di un bieco collaborazionismo, bensì con l'idea che ogni sua spesa, spreco, capriccio in realtà tenga in moto il miglioramento del mondo: mentre spendi con il cellulare sostieni con un sms un'associazione benefica, mentre ti abboffi ad un fast-food o sofisticheggi nello slow-style lasci il resto del conto al progetto per le adozioni a distanza, mentre apri un conto in banca partecipi alla campagna per la costruzione di pozzi d'acqua in zone desertiche, e così via. Peggiore sei, migliore è l'immagine che il mondo mercatilizzato ti costruisce intorno. 
Lungi dal temere che le regole del gioco lo vogliano come un gioco per pochi, ci si stupisce che altri non partecipino, non si capisce perché non saltino a bordo del carrozzone e si ostinino a sopportare pesi dei quali altri pretendono di essersi completamente sbarazzati. Sembra di risentire echeggiare quell'antica battuta, che per il popolo francese in rivolta, affamato di pane, raccomandava di nutrirsi a brioche. 
Se da un lato non si possono mettere in discussione i dogmi da monoteismo di mercato dell'accumulo di risorse (aumento del PIL, crescita dei tassi di interesse, aumento di salari, aumento di benessere...), d'altra parte non si può ambire ad alcun miglioramento o variazione delle condizioni di gestione economica (è, indiscutibilemente, da credere che si tratti del miglior modo possibile: di che ci si vuole lamentare?). "Non c'è più niente da fare."
Chiudo cogliendo con interesse come nella lettura di Fusaro trapeli il senso di una sovrapposizione tra normativo e descrittivo del quale il fenomeno capitalistico totale in quanto monoteismo di mercato si alimenta. Il senso di "illimitatezza" (che si potrà ben studiare con il secondo capitolo del libro), che si coglie alla stregua di un cattivo infinito, è opportunamente indicato (M.M., p.69) come "principio normativo fondamentale": d'altra parte, come si è già ricordato, "l'assolutizzazione del capitale trova la sua massima espressione nel concetto apparentemente anodino di 'globalizzazione', che allude - in modo sia descrittivo, sia prescrittivo - alla costituzione di un mondo liscio, unificato dal 'sensibilmente sovrasensibile' della forma merce" (p. 68) (evidenziazione nostra). Ciò che è in gioco sono, per l'appunto, le regole del gioco stesso: ciò di cui si tratta è da cogliere alla stregua di un "principio normativo", come la summa della regola che imprime uno stato delle cose per come è; la formula, se si vuole, il codice di programmazione della realtà. Cogliere nella sua radicalità il senso di una normatività come principio significa, per l'appunto, che la stessa cosa diventa la considerazione della sua descrizione così come la considerazione della prescrizione della regola alla quale ciò che "è" si deve  attenere. Il punto, sarà opportuno precisarlo in seguito, è che le cose non stanno necessariamentecosì: non necessariamente ciò che di volta in volta si pone come descrizione del reale rintraccia a sua volta autenticamente un principio normativo e, dunque, dalla descrizione di uno stato di cose non consegue per ciò stesso la verità ineluttabile di quello stato, di quell'assetto. Può darsi - Fusaro non lo dimentica mai - che quello che si descrive si voglia far passare per quello che necessariamente deve essere - e, se e quando questo accade, allora occorre dissentire ("Ugocsa non coronat!"), anche garbatamente, ma fermamente (come il Bartleby del "I would prefer not to", ricordato in M.M., pp.37-38) e tornare a distinguere tra ciò che è una descrizione e ciò che è una legge; tra ciò che è uno stato di cose da trasformare e ciò che è un principio universale. Il lavoro continua: "la semplicità che è difficile a farsi" (M.M., p.75; con il rimando alla nota, n.152).

 further readings:

http://www.comunismoecomunita.org/?p=2941 - eccellente introduzione alla dialettica dell'illimitatezza

martedì 10 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte III)

"La contraddizione tra queste due differenti determinazioni - eternità e storicità, e di conseguenza tra le due diverse definizioni prospettate per la filosofia - è per Hegel solo apparente: infatti, la filosofia si occupa di ciò che è ed è eternamente, e si configura pertanto come una logica dialettica che non è mero metodo ma è ontologia, ossia compiuta teoria dell'essere e della sua dinamica immanente; e, insieme, ciò che è ed è eternamente non si presenta mai nella sua iperuranica immutabilità [...], ma si manifesta sempre temporalmente determinato in una storia concreta, in reali Gestaltungen spazio-temporalmente connotate." - Diego Fusaro, Minima Mercatalia, p.57 (par.1.3)
 Nell'intervento precedente era già questo il tema, che, annunciato nella chiusura del paragrafo, trova ora sviluppo nella densa esposizione del paragrafo 1.3.
Nella lettura continuiamo qui ad attenerci alle impressioni "a caldo", senza il corredo di un'analisi concettuale approfondita. L'esercizio appare difficile in un caso come questo: l'argomento è di massimo rilievo filosofico e "umano"; l'esposizione è densa di contenuto; il tema è dei più appassionanti per il lettore che personalmente si sta cimentando. 
Per questo scelgo il passo citato. Esso riprende un po' più estesamente il concetto preannunciato e già proposto in queste pagine (parte II): il "nesso tra verità e storia o, da una diversa angolatura, tra eternità e divenire" (M.M., p.53); "il nesso hegeliano tra verità e storia o, da una diversa prospettiva, tra eternità e temporalità." (M.M., p.56). 
Si coglie l'occasione dell'accostamento tra queste due espressioni per evidenziare un'altra volta la valenza del termine "angolatura", poco dopo reso con l'espressione "prospettiva": essi riguardano non tanto un punto di vista o una specifica osservazione, quanto invece evocano un modo di guardare, di considerare, che tende costitutivamente ad intessersi intimamente nella cosa stessa in quanto presa in considerazione. 
L'angolatura, la prospettiva, indica non solo una posizione dalla quale si colga un'immagine, bensì il modo stesso secondo il quale quell'immagine sia percepita e l'oggetto considerato si con-stituisca in quanto immagine. La prospettiva è in senso specifico una tecnica di rappresentazione nel disegno, con rigorose regole e forme: essa permette di rendere sulla superficie piana (per esempio quella del foglio di carta o della tela) l'impressione di percepire una tridimensionalità dell'immagine. Esistono vari tipi di prospettiva, a seconda delle regole di "conversione", per così dire, di "traduzione" delle misure tridimensionali in linee dello spazio a due dimensioni; il punto di fuga (o i punti di fuga) è il cardine dell'impostazione della struttura: è un punto, reale o immaginario, interno o esterno allo spazio della rappresentazione grafica, sul quale si fanno convergere materialmente o idealmente le linee della rappresentazione e della costruzione. E' questa impostazione strutturale del disegno a permettere l'"illusione" della tridimensionalità ed è questa stessa impostazione strutturale che, a seconda del tipo scelto secondo la specificità riguardante il punto o i punti di fuga, permette di dare risalto ad un dettaglio piuttosto che ad un altro (così per esempio una prospettiva centrale potrebbe esaltare le simmetrie dell'oggetto rappresentato, mentre un prospettiva di scorcio potrebbe rendere meglio il senso del rapporto tra l'oggetto e il paesaggio in cui si colloca, una prospettiva dall'alto permette di vedere la sommità di un edificio, altrimenti nascosta, ma potrebbe penalizzare la resa dell'altezza, e così via). 
Ciò che è importante notare è come la prospettiva, l'"angolatura", tenga dunque sì conto anche di quello che è un punto d'osservazione (un punto di vista) nonché di una posizione più strettamente "tetica" quale quella di un punto di fuga, ma, per l'appunto, con la nozione di prospettiva, di angolatura, si ha il complesso di regole che presiedono alla strutturazione e costruzione grafica della quale il punto di osservazione e il punto di fuga sono alcuni elementi, considerati gli uni con gli altri, e non un singolo elemento che di per sè possa esaurire il senso dell'oggetto preso in considerazione. In altre parole, un'espressione quale punto di vista in senso stretto indica un elemento parziale di una nozione complessa. Diversamente, "prospettiva" indica necessariamente anche in senso proprio una tecnica ben articolata, nel concetto della quale rientra necessariamente anche lo stesso elemento del punto di vista (ed, in più, inseparabilmente, il/i punto/i di fuga, la mediazione dei rapporti tra misure, la considerazione di una scelta stilistica etc.). La scelta terminologica appare molto felice.
La variazione da una "prospettiva" o "angolatura" ad una diversa, così, permette di cogliere la stessa cosa secondo termini variabili: la stessa cosa si traduce ora per esempio in termini di un nesso eternità-termporalità, ora in termini di un nesso verità-storia; non soltanto: la lettura in questo senso di ciò che si costituisce nei termini evocati permette, ancora, di accostarvi altre diadi, come indicano le espressioni riferite al "piano logico-ontologico" (p.61) e  al nesso "tra filosofia e verità" (p.61); si tratta di un assaggio della complessa struttura che articola un "nesso" in connessione molteplice di nessi-inter-connessi. Si sbaglierebbe, tuttavia, a voler qui leggere un complicato strutturalismo: complicata è solo la forma che l'esposizione di una realtà come quella della quale si tratta tende ad assumere, ma tra gli intenti di questo tipo di esposizione bisogna saper cogliere quello di mostrare come il senso che vi si presenta faccia capo a qualcosa di più originario e di più semplice, qualcosa che universalisticamente non si confonde con l'intrico delle forme manifeste. Si tratta qui, però, solo di voler dare un assaggio: questo discorso non può proseguire in questa sede specifica. 
Ciò che di nuovo merita di essere rilevato, come già si sta facendo, è la costante dell'idea di "nesso" che ricorre nell'esposizione (pp. 53, 56, 61 et alia). Un nesso, un collegamento, un'unione tra termini distinti non soltanto è possibile, ma è costitutiva ai fini di una comprensione e di un'articolazione del tema. Ora il nesso è connessione tra termini, ma un discorso è per la considerazione di un nesso specifico tra termini determinati (come nel caso in cui si tratti di mostrare, per esempio, il fatto che "eternità" e "divenire" si possano considerare in relazione tra loro secondo un nesso che li unisce; un altro discorso ancora è considerare specificamente il concetto di "nesso", tra qualsiasi termine che possa esserne interessato - il concetto di nesso, di unione, di con-nessione. Questo tipo di relazione è chiaramente parte cruciale del tema, ma bisogna accontentarsi di lasciarlo a margine, perchè propriamente non del concetto di relazione di connessione si tratta, ma di alcune specifiche figure che si considerano nei reciproci nessi. 
Una osservazione alla quale non rinuncio è tuttavia questa: laddove un nesso si dà tra determinazioni, così pure si tratteggia in forma più o meno netta e drammatica una contraddizione. Questo si affaccia con grandissimo interesse nell'esposizione del capitolo in lettura. Laddove si tratta del nesso tra determinazioni di "eternità" e "storicità" pure si deve rilevare (rilievo già ricondotto a Hegel, e tematizzato qui ulteriormente da Fusaro) una contraddizione. Si tratta di contraddizione apparente, e tuttavia tale da impegnare seriamente il ragionamento. In altre parole, non direi che si tratta di una falsa contraddizione, ma piuttosto di una contraddizione solo terminologica capace di esprimersi in una composizione logica. La contraddizione apparente non è ineffettiva: essa è in quanto si manifesta, ma non permane in quanto tale sul piano logico. Si tratta di una dissonanza al primo ascolto, di un tema che un successivo svolgimento armonico permette di riarticolare all'orecchio eufonicamente. Il "nesso" così come la parvenza/apparizione di una contraddizione fa parte della comprensione dialettica, che è oggetto e prima ancora metodo dell'opera: gli stessi termini evocati si comprendono secondo tale metodo. Così pure la nozione di "determinazione" assume correttamente il proprio significato allorché si tiene conto dell'andamento triadico di tesi-antitesi-sintesi che articola ogni posizione tetica in quanto tale in un avvicendarsi tra momento positivo e momento negativo, come avvicendamento solo parziale di ciò che si vada considerando. Si tratta di quella "logica dialettica" (p.57, nel passo qui citato in epigrafe), "che non è mero metodo ma è ontologia". 
Peraltro, ciò che "si manifesta sempre temporalmente determinato in una storia concreta" non esclude affatto ciò che partecipa anche della "iperuranica immutabilità". 
Tra essere  e divenire, si tratta di considerare questo aspetto, è dunque un nesso; resterebbe, come sullo sfondo, una questione che qui non ha da trovare luogo: sempre si darebbe tale nesso, in quanto necessario, ovvero esso può darsi, ma non necessariamente si dà? In altre parole, occorre pensare che un essere si trovi sempre in un manifestazione, ed in ogni manifestazione contingente sempre si trovi un'espressione di essere, ovvero tale nesso può trovarsi, in alcune (felici) manifestazioni qualificate, mentre occorre altresì immaginarsi una contingenza sottratta ad ogni relazione con una eternità d'essere, così come pure quell'essere iperuranicamente immutabile, che "sia" e tuttavia non si dia in alcuna manifestazione? Questo discorso, qualora affrontato minuziosamente secondo questa impostazione, sarebbe facilmente, ed ancora generosamente, attaccabile come la più folle idiozia: ciò che si vuole invece richiamare è che questo tipo di cavillosa interrogazione invita a dichiarare una presa di posizione (o anche la dichiarata rinuncia alla considerazione di una così specifica presa di posizione) circa il significato che si attribuisce al discorso che si espone. Poiché una cosa sarebbe intendere che sempre un nesso necessario si dia tra tutto ciò che è eterno e tutto ciò che è divenire, mentre altra cosa sarebbe intendere che un nesso possa darsi tra alcune cose che sarebbero eterne e alcune cose che sarebbero divenire, non sarebbe ozioso considerare questo aspetto. Il discorso evidentemente non riguarda questo livello di radicalità, e qui è meglio così. Mi pare, tuttavia, che non si potrebbe escludere nè un aspetto nè un altro e che più precisamente il discorso si imposti tenendo conto di una lettura nella quale si potrebbe precisare in che senso non sia quello il problema. Sostenere che, per esempio, un essere non possa essere altrimenti se non in quanto manifesto in una determinazione contingente tenderebbe ad escludere la considerazione di una trascendenza in quanto possibile non-determinato. Ciò tuttavia sarebbe da un lato una considerazione in accordo con quell'ipotesi particolare, dall'altro, invece, sarebbe in contrasto con il presupposto stesso della connessione rilevata, poiché un essere che si esaurisse nelle proprie determinazioni attuali non avrebbe ragione di venire preso in considerazione distintamente da esse. 
La struttura dialettica ha appunto il merito di porsi al di fuori della logica oggettivizzante di questo tipo di ostacoli al ragionamento. Non sarà eventualmente ozioso riprendere la questione. 
Come ultimo rilievo per il passaggio in lettura, un'osservazione logico-stilistica. Riprendiamo le due espressioni richiamate: 
il "nesso tra verità e storia o, da una diversa angolatura, tra eternità e divenire" (M.M., p.53); 
"il nesso hegeliano tra verità e storia o, da una diversa prospettiva, tra eternità e temporalità." (M.M., p.56);
teniamo a riferimento sempre il passo in lettura, e in particolare
le "due differenti determinazioni - eternità e storicità"; 
ora, le diadi particolari di termini che compaiono in questa brevissima rassegna sono le seguenti, già in parte rilevate: 
verità - storia; eternità - divenire; 
verità - storia; eternità - temporalità; 
eternità - storicità; 
ora, è curioso e forse potrebbe essere interessante notare che il termine "divenire" nella prima formulazione passa ad esprimersi nel termine "temporalità" della seconda; non si tratta di una diade diversa, perché la ripresa del discorso è puntualmente nei termini dell'introduzione che lo ha preceduto al termine del precedente paragrafo. La corrispondenza dell'altra diade, verità-storia, è in parte una conferma. In questo caso propriamente la stessa idea è stata resa ora come "divenire", ora come "temporalità", e questo potrà essere d'aiuto per discutere sulla valenza di queste nozioni e sui concetti che vi si riconducono. Se il termine " eternità" rimane come immutato nella sua resa, il divenire/la temporalità che vi fa da contraltare appare più sfuggente e sgranato nella sua determinazione, ora assumendo una forma, ora un'altra - di nuovo per significare la stessa cosa, con altre parole. Il portato di questo termine, divenire/termporalità..., sembra cogliersi (e non a caso) meglio nell'essere il contrapposto-connesso di "eternità", che non nella forma testuale della propria enunciazione lessicale. 
La terza rappresentazione diadica qui evocata è quella che compare nel passo in epigrafe a questa lettura, ed ecco che riprende ancora l'"eternità": "eternità"-"storicità". I termini fanno qui la loro comparsa con effetto di una figura retorica di chiasmo: si incrociano, ancora una volta a testimoniare quella con-nessione ed inter-con-nessione di nessi di cui si va discorrendo. Per il momento si può sospendere qui, non senza chiudere provocatoriamente: in questa raffigurazione che si è rintracciata per il discorso, un solo perno rimane centrale ed almeno apparentemente indiscusso: l'"eternità". 
Alla prossima lettura.

lunedì 9 aprile 2012

a proposito di... Minima Mercatalia (parte II)

"Sarà bene soffermarsi ulteriormente su questo punto cruciale, ossia sul nesso tra verità e storia o, da una diversa angolatura, tra eternità e divenire. Esso rappresenta infatti il 'segreto' della dialettica di Hegel", Minima Mercatalia, p.53
Questa citazione, tratta dal secondo paragrafo del primo capitolo dell'opera, fa parte strutturalmente già, in effetti, del terzo: conclude il paragrafo nel quale si colloca, per introdurre l'argomento al quale è interamente dedicato il paragrafo successivo. 
Per il lettore che segue questo "viaggio" personale tra le pagine di Minima Mercatalia, dunque, il passo non dice nulla sul capitolo 1.2, mentre dice molto sui gusti di chi legge!
Rimandando dunque al testo per il contenuto effettivo del secondo paragrafo (che merita, non soltanto per l'economia dell'opera, ma soprattutto per alcune "chicche", per esempio su "idiotismo specialistico", un riferimento al geniale Lukàcs, p.44), non desidero altro che tornare alla citazione che mi appassiona.
In poche righe,(almeno) cinque aspetti importantissimi per la mia lettura:
1) il "nesso"
2) la "angolatura"
3) "verità" (e "storia")
4) "eternità" e "divenire"
5) la "dialettica" ("di Hegel");

in forma più succinta, gli elementi che suscitano il mio interesse in questo passo appaiono piuttosto così: 

i) eternità-divenire
ii) verità-storia
iii) dialettica;
è noto lo schema hegeliano dialettico ad andamento ternario: tesi-antitesi-sintesi - sul quale varrebbe la pena spendere molte più parole, e che tuttavia ci si limita a richiamare. Brevemente, questa struttura indica, tra l'altro, un modo di ragionamento capace di cogliere una trasformazione (un "divenire", storico) in una concatenazione di manifestazioni reali tali da segnare la diversità tra un passaggio e l'altro, e, tuttavia, al contempo, non-perdere il senso di una unità comune. 
Come è possibile ciò? Non si tratta qui di studiare la dialettica hegeliana, bensì di cogliere il senso di ciò che la legittima radicalmente - qualcosa che, universalmente, filosoficamente, tocca il vivere profondo di ciascuno, sazio o digiuno che sia di storia e lessico della filosofia. 
E' per questo stesso aspetto che quel "qualcosa", che il filosofare hegeliano è capace di cogliere, è tale da far presa in qualunque forma sulla nostra esistenza e sulla nostra quotidianità, andando a finire per intessere e colonizzare capillarmente la totalità delle manifestazioni dell'esistente. Così "qualcosa" che il pensiero difficilmente coglie sembra pervadere cionondimeno ogni cosa, fino a catturare noi stessi nella nostra stessa umanità; così quel "qualcosa" che parrebbe indefinibile-indecifrabile sembrerebbe riguardare tutto ciò che sembra importante, sia questo un sistema sociale, una disciplina scientifica, una fede religiosa, una filosofia - o, ancora più radicalmente, "la" società, "la scienza", "la" fede, "la" filosofia... L'economia, il mondo e così via, senza limite
La struttura dialettica chiama in causa essenzialmente prima di tutto il concetto (veramente difficile, senza neppure bisogno di apparire complicato) di una continuità che si manifesta in ciò che non è tuttavia mai identico a se stesso. Così le contingenze accidentali immanenti del quotidiano possono rinviare ad una trascendenza; il continuo divenire si con-stituisce nella stessa eternità, come in un paradosso; la storicità manifestata in "fatti" tutti conchiusi e morti trae vita da una "verità" che non muore. 
Davvero tutto sembra passare di qui! Come poter reggere tanto peso? 
Proprio questo è a sua volta in gioco: una totalità, infatti ("tutto"!) non si manifesta in quanto tale nella sua pienezza, bensì come sbocconcellata in frammenti non disgiunti l'uno dall'altro, un passo per volta, a piccole misure, via via accessibili. Si tratta di un aspetto ulteriore che entra in discorso, e che non merita qui approfondire. 
Come poter cogliere il cuore, il senso di ciò che passa in ciò che non passa, il senso di ciò che unisce in ciò stesso che separa? E' questo il "nesso". Il nesso, il collegamento, ciò che mette insieme, combina, collega (link), ri-combina - per ciò stesso anche distingue, separa, ripartisce. 
Il nesso, metaforicamente, è la nozione che risponde ad un concetto di ciò che si fa insieme sia ponte sia fossato. Esso è nello stesso oggetto, in apparente paradosso, ciò che segna la discontinuità e ciò che permette di collegare gli elementi separati. Una con-nessione si stabilisce tra oggetto e oggetto, così come tra momento e momento, tra fatto e fatto, permettendo di tracciare e di cogliere insieme ciò-che-è con ciò-che-non-è: così, attraverso la percezione di un divenire, si coglie il segno che significa l'eterno. 
L'"angolatura" (o, a volte si dice, il punto di vista) che cosa viene dunque a significare? Non si potrà più dire che a seconda del punto di vista, della angolatura che si assume, qualunque cosa possa essere qualunque altra, tutto possa significare tutto e il suo contrario, sia tutta questione di interpretazione etc. L'"angolatura", il punto di vista, non è il segno del qualunque-cosa che azzera ogni portato di senso: una angolatura fa parte del senso stesso della cosa che si coglie, si combina secondo il nesso, il senso di ciò che si con-stituisce dialetticamente in una verità non estranea alle forme di manifestazione del divenire, dialetticamente ed eternamente
Mentre si prosegue la lettura, l'altezza vertiginosa alla quale porta questa prima introduzione dell'argomento fa comprendere il valore della posta in gioco nell'opera. Buon proseguimento. 

 

 further readings:


Patrick Nerhot, La metafora del passaggio - Il concetto di tempo in sant'Agostino - Fondamento di una nuova etica, Cedam, Padova 2008 (332 pp.)
Patrick Nerhot, Ernst Junger-Martin Heidegger: il senso del limite (o la questione della tecnica), Cedam, Padova 2008 (255 pp.)
Diego Fusaro, Essere senza tempo - accelerazione della storia e della vita, Bompiani 2010 (411 pp.)
Patrick Nerhot, Diritto Storia (Saggio di filosofia del diritto), Cedam, Padova 1994 (232 pp.)


domenica 8 aprile 2012

Minima Mercatalia, di Diego Fusaro: il nuovo libro

Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Bompiani 2012 - con un saggio introduttivo di Andrea Tagliapietra

A proposito di..."[...]un'opposizione meramente testimoniale[...]", p.30 - Un'opposizione meramente testimoniale è quell'opposizione ferma e tuttavia non trionfante, che, pur non crollando, tuttavia non ha aspettativa di vittoria, ed anzi più o meno rapidamente volge all'epilogo di una sconfitta o addirittura dell'annientamento.
Il passo in cui si trova questa espressione è all'inizio del primo capitolo. Si riferisce al motto "Ugocsa non coronat" (p.29, p.42 et alii), le cui vicende eroiche (insieme venate da un sapore anti-eroico ed elegiaco) sono brevemente e suggestivamente riferite in questo primo capitolo. Ugocsa è il nome di una regione storica dell'antico Regno d'Ungheria. All'epoca della ratifica della Prammatica Sanzione, i soli rappresentanti di quella piccola regione rifiutarono di accordare l'approvazione. La loro opposizione non ebbe alcun effetto - e tuttavia non venne meno.
Che senso ha levare una voce dissenziente, se in ogni caso tutti gli altri consentiranno? Che senso ha opporsi a ciò che, ineluttabilmente, accadrà in ogni caso? In questo senso si apre il tema di una testimonianza.
Un'opposizione meramente testimoniale è dunque l'espressione che evoca significativamente l'opposizione che non può sperare di sortire effetto alcuno. Essa rimane puramente dimostrativa; incapace, in senso generico, di fare la differenza, di far pendere le sorti di una decisione da una parte o dall'altra. Essa è meno di una goccia nel mare. Non serve a niente.
E' tutto qui?
Testimonianza è anche quella del martire, che in senso etimologico stretto è per l'appunto non colui che muore per una causa, bensì il testimone. I "martiri" sono per eccellenza, nella tradizione cristiana, coloro che vengono perseguitati fino alla morte per causa della loro professione di fede: essi sono i "testimoni" della professione di fede per eccellenza, perché pur di non venir meno ad essa accettano la persecuzione, il supplizio, la morte. La forza della loro testimonianza non li può liberare dal nemico che li opprime: essi, tuttavia, non cedono, non vengono meno - accettare le estreme conseguenze imposte al loro gesto di fede diventa a sua volta il segno estremo del suo valore e della sua forza, spirituale ancorché distaccata dall'efficacia materiale. Il segno di colui che crede e rimane fedele al di là della propria stessa vita, al di là perfino di una morte "clemente" o "dignitosa" è segno del senza-misura, dell'al-di-là di ogni misurazione di valore possibile, di una fede in qualcosa che supera ogni possibile promessa o minaccia del mondo fisico.
E' follia? E' qualcosa che trascende la qualificabilità stessa di ragionevolezza e follia? Non ha, qui, molta importanza: questa testimonianza trova il proprio valore nell'essere un segno sconvolgentemente forte e rigorosamente estremo, radicale - vissuto fino alla fine, vissuto fino alla morte. Il segno sconvolgente della testimonianza nel martirio tocca più di un tema cruciale: mi preme tuttavia rilevarne uno, è l'irriducibilità del gesto irreversibile e fermo, del non poter - nè voler - tornare indietro, disfare ciò che è fatto, ritornare sui passi compiuti. La fermezza di un ideale rimane, così, vividamente cristallizzata nella testimonianza del martirio: essa sopravvive al di là della sussistenza in vita stessa di colui che l'afferma, fissandosi così al di là di ogni contingenza.
Questo gesto assume pertanto un valore del tutto peculiare e svincolato da ogni effetto contingente che possa o meno sortire. Esso assurge a segno, per colui che l'ha assunto, per coloro che vi assistano, per tutti coloro ai quali se ne tramandi il racconto. Il testimone lascia, nel martirio, un segno vivo che si carica di tutto ciò che è stato importante al di là della sopravvivenza stessa.
In un gesto di questo tipo, la testimonianza perde ogni valutatività di tipo relativo e si assolutizza - o tende ad assolutizzarsi -  per via della sua irriducibilità e radicalità.
Per ciò stesso si ammette dunque che, in un discorso del genere, un tale gesto non si compia invano, e questo nonostante la sua "inutilità". Tale gesto, per contro, tende di per se stesso a vanificare il concetto di "utile".
[...to be continued]

Minima Mercatalia - Diego Fusaro


leggi la descrizione e l'indice del libro (http://www.filosofico.net/filosss.html) su Filosofico.net, il sito: http://www.filosofico.net/filosss.html

La presentazione di Costanzo Preve (video): http://www.youtube.com/watch?v=U2X8VHywzd8


La lettura di Minima Mercatalia su PhB - tutte le uscite: http://phideltabeta.blogspot.it/search/label/Minima%20Mercatalia - Resta aggiornato per le prossime.


La pagina Bompiani di Minima Mercatalia:
La pagina Feltrinelli di Minima Mercatalia:
  http://www.lafeltrinelli.it/products/9788845270130/Minima_mercatalia/Diego_Fusaro.html- Minima Mercatalia è disponibile sia in formato cartaceo sia in formato elettronico:



 Diego Fusaro, Minima Mercatalia, Bompiani 2012 - (I edizione marzo 2012); 504 pp.; con un saggio introduttivo di Andrea Tagliapietra. 
ISBN 978-88-452-7013-0

martedì 3 aprile 2012

Brian Leiter


Alcune letture tra gli scritti di Brian Leiter


Brian Leiter, The Demarcation Problem in Jurisprudence: A New Case for  Skepticism (October 7, 2010). NEUTRALITY AND THE THEORY OF LAW, J. Ferrer & J. Moreso, eds., Madrid: Marcial Pons, (di prossima pubblicazione); U. of Chicago, Public Law Working Paper No. 319. Consultabile in: http://ssrn.com/abstract=1599620

Brian Leiter, Naturalizing Jurisprudence: Three Approaches (November 2008), U. of Chicago, Public Law and Legal Theory Working Paper No. 246. Consultabile in http://ssrn.com/abstract=1288643

Brian Leiter, In Praise of Realism (and Against 'Nonsense' Jurisprudence), in The Georgetown Law Journal , vol. 100:865, pp.865-893 - http://georgetownlawjournal.org/files/2012/03/Leiter1.pdf (2012);
http://georgetownlawjournal.org/articles/in-praise-of-realism-and-against-%E2%80%9Cnonsense%E2%80%9D-jurisprudence-2/

la rete di siti, blog e interventi principali di Brian Leiter