giovedì 25 novembre 2010

Il mondo come volontà e rappresentazione - dato che mi riprometto da tempo di leggerlo, almeno comincio a procurarmi una copia disponibile online, grazie alla biblioteca del progetto Manuzio

Il mondo come volontà e rappresentazione, parte I

Schopenhaueriani, buone letture.

martedì 26 ottobre 2010

"Beauvoirisme" - strano come in un'opera possa esserci così tanto, e che sembri tuttavia così poco in confronto alla vita di chi l'ha scritta.
Readings and sentences quoted from Second Sex, translated in English for the linked web edition.
"Merleau-Ponty notes in the Phénoménologie de la perception that human existence requires us to revise our ideas of necessity and contingence"

lunedì 25 ottobre 2010

"La riflessione è l'appropriazione del nostro sforzo per esistere e del nostro desiderio d'essere, attraverso le opere che testimoniano di questo sforzo e di questo desiderio"  P.Ricoeur, Della interpretazione, Il Saggiatore, Milano 1967 (I ed. franc. Paris 1965), p.62

martedì 19 ottobre 2010

Quo pretio?

A che prezzo? Qual è il prezzo, per qualunque cosa si consideri? 
Che prezzo e valore non siano la stessa cosa, è un discorso.
Ma proprio per questo è importante chiedersi la definizione che si dà da parte nostra sia dell'uno sia dell'altro.
Se vogliamo, per esempio, mettere a raffronto un valore con un prezzo, il valore di una cosa con prezzo che vi è correlato, occorre condurre due discorsi separati. Di solito il problema più frequente sembra quello della attribuzione di valore - forse appare come un problema più astratto, dalle maggiori implicazioni necessariamente da considerare come questioni metafisiche, ma, soprattutto, bisogna considerare che il "prezzo" è normalmente considerato nella nostra quotidianità come qualcosa di già determinato - e, dunque, ai fini di una generica considerazione quotidiana, come un dato da prendere per certo e immodificabile. 
I prezzi con cui abbiamo più facilmente occasione di cimentarci, in altre parole, sono, nella maggioranza dei casi e per la maggiore generalità di noi, "prendere o lasciare", senza margine di contrattazione.
Quello che mi sembra in effetti più pacificamente tacitamente disposto ad una contrattazione continua è proprio quello che dovrebbe apparirci più relativamente stabile per ciascuno nella sua individualità - il valore. Ma, ancora, è un altro versante del discorso.
Quando ci chiediamo "qual è il prezzo", "a che prezzo", quo pretio, intendiamo molte situazioni possibili, e di una certa gravità, in barba alla banalità quotidiana della domanda - "Quanto costa?"; "aspetti, vediamo l'etichetta... 50, ma da scontare, in saldo fanno 35, ma si affretti perché è l'ultimo pezzo"; "Ah... se ne prendo due me li fa a 30?"; "Mi spiace; quella promozione è finita la scorsa settimana; la direzione non ci lascia fare i prezzi, comunque questo lo prenda perché è certo che non scende più, le conviene". A questo punto spesso compriamo, o forse diciamo "ci penso"...
Ma qual è invece il prezzo che siamo disposti a pagare - non solo quello monetario: un "prezzo" di cui quello monetario sia solo uno degli esempi possibili? Quali sono i costi che entrano in gioco nelle nostre valutazioni quotidiane, a qualunque livello?
Si dice - credo soprattutto da parte di chi è il primo a contribuire a questo tipo di "realtà" - che "nessuno dà niente per niente"; non ci credo: se fosse così, tanto varrebbe non enunciare con tanta veemenza e occasionale amarezza alternata a rassegnazione una banalità lapalissiana quale potrebbe essere "il sole sorge all'aurora". No, penso che, invece, ci sia qualcosa come ciò che quella dichiarazione spera di negare: qualcosa come la gratuità
Che cosa significa? Significa il senza-prezzo: ciò che non comporta nè la riscossione nè la quantificazione nè la presupposizione di una merce di scambio. 
E', come è facile immaginare, un concetto che affatica molto il pensiero; non importa. 
A che prezzo accade ciò che mi accade? A che prezzo agisco come agisco? A che prezzo "vivo"? Queste cose di quando in quando ci capita di chiederci - spesso senza che pensiamo di volerlo. 
A che prezzo sei mio amico, a che prezzo mi stai accanto?
E' ragionando così che provo a dare una risposta al problema di qualcosa che appaia "costare più di quel che vale". Quando diciamo "non ce la faccio più", "non ne vale la pena", non stiamo soltanto dicendo che siamo scoraggiati o disperati: spesso stiamo soprattutto dicendo che il costo di qualcosa (magari proprio del vivere) è per noi diventato superiore al valore che vi attribuiamo. E' questa una delle rappresentazioni che ci restituisce una delle immagini più cariche della disperazione che sembra non lasciare scampo.
Quando qualcuno fa qualcosa per noi, in alcuni casi succede il miracolo della gratuità - è tutto-per-niente - anche se paradossalmente ottiene in cambio almeno per un momento il "tutto" dell'incommensurabilità della gratitudine. C'è qualcosa che quasi mi commuove nell'insufficienza con cui ci esprimiamo, cercando di adattare le nostre scarse metafore mercantilistiche all'incommensurabilità di qualcosa di "buono".
A che prezzo accogliamo la "bontà" nel nostro vivere, quella bontà che riconosciamo nel gesto di un amico, nell'impegno di una persona che incontriamo, per esempio?
Non necessariamente la gratuità spazza via assolutamente una nozione di prezzo. Gratuità è qualcosa che può mostrarsi pure piccolo e prezioso anche se accompagnato ad una banale logica di prezzo. Classico esempio può essere la gratuità del sorriso con cui il commesso ci consegna la merce che stiamo pagando in un negozio - di solito abbiamo la percezione di saper distinguere tra un sorriso mercificato, che serve soprattutto per farci tornare da clienti affezionati, e un sorriso "gratuito", quello che chiamiamo anche un vero sorriso, un sorriso autentico: quello di un essere umano ad un altro essere umano, che vuol dire piuttosto qualcosa come "non importa se siamo qui a giocare a fare il commerciante e l'acquirente, se siamo in un negozio, e chi siamo - io sono un io e tu sei un tu, senza che sappiamo come e perché ci siamo incontrati, e forse questo è bello, o forse no, e comunque è, e siamo noi". Due umanità in un traffico di umanità vaganti. Un sorriso nella folla, un sorriso tutto nostro. Un regalo senza prezzo.
A volte, allora, questa gratuità può manifestarsi almeno apparentemente al prezzo di una circostanza che comporta un preciso costo. Direi che potremmo parlare qui del prezzo di un'occasione - so che l'incontro con Tizio può essere occasione di incontro con una gratuità, un senza prezzo, un puro valore - eppure so anche che Tizio si trova precisamente in un luogo dal quale non si muoverà, per esempio una casa in un paesino un po' sperduto, lontano da me e poco frequentato. Io non so nemmeno se attraverso Tizio si manifesterà qualcosa come un gratuità, eppure mi aspetto in qualche modo che sia così. In ogni caso, sebbene tutto sia possibile, è probabile che per incontrare Tizio dovrò farmi carico del creare una specifica occasione. Questa occasione può essere un aspetto pratico che comporti un costo, un prezzo, preciso. 
Penso che anche quelli che chiamiamo i "difetti" di una persona possano rappresentare, sempre nelle nostre scarse metafore mercantili, un "prezzo" da pagare per l'occasione di godere del buono che può esservi in quella persona. 
E' chiaro, lo ammetto: questo discorso ha qualcosa di complesso e forse anche di complicato. Magari si può efficamente semplificare. Magari, invece, semplicemente non è "facile" - e la vita può essere semplice, ma raramente le si attaglia la qualifica di "facile".

mercoledì 13 ottobre 2010

Filosofia del diritto? Appunti per una significazione del concetto di "giuridico"


Si può leggere questo post anche qui

Il concetto di “giuridico” in una filosofia del diritto può richiedere qualche precisazione. Che cosa si intende per una filosofia specificamente qualificata come “del diritto”? Se vi si volessero ravvisare i requisiti di una filosofia “applicata”, nel senso di una teorizzazione applicabile ad uno specifico oggetto “diritto”, occorre notare innanzitutto che l'approccio filosofico invita ad escludere una concezione ingenua della “applicazione” come qualcosa che comporti la possibilità che un pensiero come una sorta di apparato teorico predisposto possa essere pacificamente utilizzato in senso meramente strumentale.
Ciò che sembra chiedersi, invece, ad una filosofia, ad un pensiero teoretico, nella “applicazione” (tecnica, etica, giuridica, morale, politica, economica...), è la capacità di individuare il “pensiero”, il “pensare”, che essa esprime, nell'ambito specifico dell'esercizio di una determinata pratica, in un “fare”, un “agire”.
Non è, questa, una caratteristica peculiare del “diritto”: si può avere occasione di osservare, per esempio, come la pratica della ricerca medica o biologica incontri la stessa esigenza di cercare il supporto di un “pensare” nel “facere” della propria quotidiana opera.
Questo discorso – come una “teoria generale” di una scienza pratica, per esempio una “teoria generale del diritto” - è piuttosto ingannevole e forse ingenuo quando fa mostra di porsi direttamente una domanda del tipo “che cosa è x”; se si mantenga l'esempio del “diritto”, la domanda posta nei termini “che cos'è il diritto”, “che cos'è le legge”, “che cos'è la giustizia” etc. appare fatua in un intento che paia quello di selezionare un'etichetta per qualificare positivamente “x” (diritto, giustizia, verità...), quando la difficoltà della domanda è, piuttosto, nel “che cosa”, “quid”. Nel discorso del pensiero rivolto alla pratica di un “fare”, il “quid” che dovrebbe definire l'oggetto è solo illusoriamente un presupposto – in altre parole: non è possibile che una teoria fornisca una “verità” assoluta prioritariamente data sulla quale fondare la legittimazione di una pratica.
Così, come quando si chiede allo scienziato “perché fa ciò che fa”, quando si chiede al ricercatore o al tecnico di laboratorio perché organizza in un determinato procedimento la mostrazione di un esperimento scientifico, la risposta è che quella mostrazione è così organizzata perché tale organizzazione si adegua ad un'idea ordinatrice che è data altrimenti, stabilita da qualcun altro o qualcos'altro. L'”ipotesi” si mostra come ciò che imprime l'esperimento e si mostra “nell'esperimento” - ma né l'esperimento né i mezzi che lo realizzano permettono di selezionare la formulazione dell'ipotesi.
E così pure, in un processo decisionale orientato alla pronuncia di una sentenza una serie di elementi di prova vengono organizzati ad articolare un ragionamento decisorio e una motivazione che sorregge la decisione, ma il contenuto del possibile esito decisorio si vuole rigorosamente determinato per legge, secondo diritto formalizzato: è la formalizzazione giuridica nella legge a dover formulare l'ipotesi che “presiede a” ed orienta nel ragionamento l'intero impianto decisorio.
La rappresentazione di una ipotesi come formulazione che presiede all'organizzazione di un ragionamento si può tra l'altro rintracciare anche nelle linee guida ben note che propongono la lettura di una norma come un enunciato ipotetico, nella consueta forma “se x allora y”, o, quale equivalente, “a x segue y”. Si intuisce a prima vista come in una simile relazione il problema di riconoscere le condizioni che permettano di individuare il primo termine presieda alla possibilità di determinare il secondo; ciò comporta come aspetto particolarmente delicato che la relazione tra tali termini sia irriducibile a ciascuno di essi individualmente:pretendere che la conoscenza di uno renda pacifica la conoscenza dell'altro significa o che nulla di “sconosciuto” entrerebbe in gioco nell'operazione cognitiva, oppure che qualcosa che non si riduce a nessuno dei singoli termini concerne tale relazione.
Nell'approccio del ragionamento del pensiero teoretico orientato alla pratica il “quid” del “ciò che si fa” non si cerca di enunciare positivamente, direttamente, ma quasi si scompone sui due versanti del “come si fa (ciò che si fa)” e del “perché si fa (ciò che si fa)”. Il mito scientifico-tecnico, di dominare un oggetto di sapere nel saperlo riprodurre, replicare, nell'individuarne il “come si fa”, mostra come un “che cosa” sia sempre presupposto nella pratica – ma come quel “cosa” per definizione sfugga.

La pratica mostra necessariamente l'aspetto di quel “fine” che persegue nell'ipotesi; ha bisogno di porla come presupposta; la evoca inoltre a titolo di giustificazione, spiegazione. Ma la pratica, lungi dall'azzardarsi ad enunciare positivamente la propria ipotesi, affida ad una sorta di “altra entità” tale compito.
La considerazione che uno “scopo” è imposto ed implicato nel “fare” di una attività evidenzia il più rilevante profilo della problematizzazione di un rapporto mezzi-fini.
Si affaccia inoltre, evidentemente, un problema di responsabilità: agisco attraverso i mezzi, oppure in qualche misura posso sostenere che siano i mezzi stessi di cui dispongo a condizionare il mio agire? Occorre indagare la possibilità di una risposta sotto questo aspetto alla tesi della “questione della tecnica” heideggeriana, in particolare per quanto riguarda la determinazione che si opererebbe nel “linguaggio”
Una volta che il gioco è finito, è facile - ma inutile e non credibile - cavarsela con "io non lo sapevo".

sabato 9 ottobre 2010

Costanzo Preve - L'assalto al cielo

Costanzo Preve - L'assalto al cielo

Costanzo Preve, L'assalto al cielo, Vangelista, Milano 1992

Terzo volume di una trilogia:
Il convitato di pietra
Il pianeta rosso
L'assalto al cielo

lavori che trattano, rispettivamente, di

nichilismo e comunismo;
universalismo e comunismo;
individualismo e comunismo.

Lo schema dei contenuti della trilogia può essere desunto dalla premessa a L'assalto al cielo, pp. 9-19

Quest'opera, con la disponibilità dell'Autore, è stata resa accessibile online in formato PDF e gratuitamente.
Questa scelta, oltre che essere apprezzata con gratitudine, può far riflettere sulla preferibilità per un autore tra essere letto ed essere venduto - la scelta di Preve è qui, non resta che accoglierla, e leggere.

"Ph" stands for...

Ph stands for PhD too. So, let's have a look at this fascinating, intriguing and disturbing world.
Fist of all, if you are looking for opportunities, advice, suggestion, these are some websites to be visited:

http://www.findaphd.com/
fint PhD opportunities in UK

http://ec.europa.eu/euraxess/index.cfm/jobs/index
find PhD opportunities in EU


http://www.phds.org/
find PhD opportunities in USA and Northern America


http://www.online-phd.com/
find online-PhD opportunities, to study and research online

Get advice by Dora Farkas, PhD, here on PhDNet: http://www.phdnet.org/
Here's Dora Farkas purpose and mission, http://www.phdnet.org/about.html

If you feel as troubled as I feel, anyway, this will not be enough - or maybe it's too much. Stop by now, anyway; further discussion will follow. Bye.

mercoledì 6 ottobre 2010

Essere senza tempo: il libro di Diego Fusaro (I edizione ottobre 2010)


Puoi seguire questa notizia anche su NormanPress



Esce oggi il nuovo libro di Diego Fusaro: Essere senza tempo, edito da Bompiani. (indice dell'opera sul sito Filosofico.net)

Strizza l'occhio naturalmente a Heidegger, dal titolo (echi di Essere e Tempo), ma il tempo di cui parla promette di non essere riservato a presunti adepti della filosofia metafisica estrema.

L'Autore, come noto, si è cimentato e si cimenta assiduamente con il pensiero di Karl Marx (marxiano, non marxista, opportuna la precisazione ricorrente nei suoi interventi) ed è facile aspettarsi che sia in grado di impegnarsi nella riflessione astratta senza per questo perdere aderenza con il significato dell'esperienza quotidiana che del "tempo" possiamo fare personalmente. 

"Just start": is it enough?

Just start: is that enough? Ne abbiamo parlato, di quando in quando. Così come abbiamo parlato del "va bene così", "good enough".
Combiniamo gli argomenti: cominciare, e basta, è "abbastanza"? Va bene-abbastanza, nel senso "virtuoso" dell'espressione?
Quando diciamo "just start", comincia, fa' il primo passo, "inizia e vedrai", l'idea è pressappoco questa:

ho in mente di fare una cosa
quello che ho in mente mi pare vago
i tentativi di chiarire quello che mi appare vago mi provocano sconforto, più confusione, blocco
se invece comincio a fare qualcosa, l'idea iniziale prende forma e dà impulso a delle realizzazioni

su questo quadro, il motto "fa' il primo passo", "comincia e basta", va bene: funziona. Perchè?
Alcune ipotesi.

1)Quello che avevo in mente non era così vago come sembrava - la vaghezza derivava per esempio da una elevata complessità, per cui ogni ipotesi di azione mi suggeriva una serie troppo ampia di possibili sviluppi, così da rendere eccessivamente gravosa la sua analisi astratta. In questo caso, non è vero che io trovi vago il quadro ipotetico di possibili conseguenze dell'azione iniziale, anzi! Il quadro è complesso e incompleto ma tutt'altro che vago - l'apparente vaghezza è data (per proseguire con una metafora visiva) dalla sovrapposizione simultanea di tracce ipotetiche eterogenee e ciascuna molto ben definita, sicché ciascuna rimane esclusiva e non si armonizza con le altre.

2)Quello che ho in mente mi appare vago perchè il coinvolgimento emotivo nel progetto è molto elevato (aspettative, desiderio di riuscita, paura di fallimento, ansia da incertezza) - il progetto magari non è nemmeno molto originale, molte persone appena un po' esperte potrebbero analizzarlo in termini matematico-probabilistici o statistici e saprebbero darci una valutazione scientifica delle azioni che intenderemmo intraprendere e delle più probabili conseguenze - a noi però questo non convincerebbe, quanto meno per il fatto che ci piace l'idea di rischiare e di mettere in gioco qualcosa; non sappiamo gestire l'incertezza che questo comporta, ma preferiamo così - e in ogni caso sappiamo, anche se preferiamo non riconoscerlo, che il nostro progetto è tutt'altro che incerto quanto ci piace credere.

Nel primo caso può darsi che il progetto sia effettivamente qualcosa di innovativo ed originale in termini generali: il rischio e la difficoltà che ci rappresentiamo sono rappresentabili in modo non errato come "oggettivi"; non sarebbe probabile trovare qualcuno che ci affiancasse e diradasse i nostri dubbi; molti potrebbero indicarci le buone probabilità di riuscita di ciascuna delle molteplici ipotesi, tuttavia sarebbe improbabile che avessero la capacità di ponderare una singola ipotesi con le altre; questo passaggio graverebbe sempre su di noi e il costo dell'impegno nella ricerca preliminare sarebbe sproporzionato rispetto a quello di intrapredere quella famosa prima azione e "vedere come va". In questo caso, "just start", l'importante è cominciare, appoggia validamente su un quadro molto ricco e complesso di prospettive, che sarebbero sviluppabili, ma per sviluppare le quali conviene cominciare ad agire.
La prima azione non cade nel nulla, ma si incanala secondo una serie di variabili volutamente non predeterminate e tuttavia astrattamente prevedibili. L'effetto di questa prima azione è di ridurre di un livello la complessità iniziale del progetto intrapreso.

Nel secondo caso l'approccio è meno razionale. Si prendono in considerazione dei profili emotivi, di grande importanza quando si tratta di intraprendere azioni che possono avere un impatto ad ampio raggio sul complesso della "nostra vita" - un conto è scegliere se convenga investire una quota aggiuntiva del 10% dell'investimento attuale in energia oppure in materie prime o in ricerca e sviluppo; un conto è decidere qualcosa di meno analitico: se lasciare o no un impiego, se fare o no un viaggio di un anno intorno al mondo; se fare o no un figlio, magari anche con chi; se iscriversi o no all'Università, e quale. Et cetera. Ma quando il discorso accede a questo livello di rilievo emotivo è chiaro che non ci importa molto analizzare gli aspetti matematico-probabilistici del progetto o dell'azione che abbiamo in mente. In questo caso quello che ci serve, nel compiere una prima azione, non è dipanare una matassa di ipotesi di sviluppo realistiche. Che cosa importa, allora? Penso che per prima cosa e in generale si possa dire che si tratta di "rompere il ghiaccio", proprio come quando si fa il primo passo nel conoscere un'altra persona - si tratta di saltare metaforicamente il fossato: in questo caso il primo passo comporta un cambio di prospettiva che ha poco di oggettivabile, perché la sua caratteristica è proprio quella di avere una valenza personalissima avvertita come tale da noi singolarmente. Quello che "la cosa" significa per noi ha la peculiarità di non poter essere lo stesso per nessun altro. Si tratta di quelle occasioni in cui riteniamo che ciò che conta sia la valenza esperienziale personale del vissuto di ciascuno di noi. Casi in cui non conta quello che un altro farebbe "al posto mio".
In questo caso "l'importante è cominciare" ha il significato anche simbolico di operare un salto emotivo non altrimenti operabile che tramite una azione concreta di valenza altamente simbolica per il soggetto personalmente operante - si tratta veramente di un'azione di valenza "magica" nel senso che opera concretamente nella realtà accedendo ad un livello non esauribile in termini razionali.
Si tratta di un caso molto interessante, perchè, al di là della valenza oggettiva del cambiamento che l'azione opera, non si può concretamente sottovalutare il fatto che, nel compiere l'azione, il soggetto operante ha la percezione effettiva che "dopo nulla sarà più come prima". Può darsi che la pensiamo molto diversamente non appena quella azione sarà conclusa ("chissà che cosa mi aspettavo, non è cambiato niente"), ma è così: anche il fatto di dire che non sia cambiato niente è autocontraddittorio, perchè già afferma che è cambiato proprio il fatto che il nostro investimento emotivo in quella azione era altissimo, e averla compiuta ha comportato una sua deflazione.
Si tratta di un aspetto che altrove ho indicato come pensiero esorcistico.

Singin' in the dark - cantare nell'oscurità

"Quando il viandante canta nell'oscurità, rinnega la propria apprensione, ma non per questo vede più chiaro."
Sigmund Freud, Inibizione, sintomo e angoscia (1925)

<<In generale, io non sono per la fabbricazione di concezioni del mondo. Si lasci pur questo ai filosofi, i quali dichiarano di non credere che si possa intraprendere il viaggio della vita senza un simile Baedeker, che dà informazioni su tutto. Accogliamo umilmente la commiserazione con la quale i filosofi, dall'alto delle loro superiori esigenze, guardano in basso verso di noi. Dato però che neppur noi possiamo sconfessare il nostro orgoglio narcisistico, osserveremo a nostra consolazione che tutte queste "guide di vita" invecchiano presto, che il nostro piccolo lavoro, per quanto miope e limitato, è ciò che rende necessari i loro ammodernamenti, e che tutti questi "Baedeker", anche i più moderni, altro non sono che tentativi di rimpiazzare il vecchio catechismo, così confortante nella sua completezza. Sappiamo bene quanta poca luce la scienza abbia saputo proiettare sin qui sull'enigma di questo mondo, e non c'è chiacchiera di filosofi che possa cambiare questa realtà; solo proseguendo pazientemente il lavoro indefesso che tutto subordina alla ricerca della certezza, si può produrre a poco a poco un mutamento. Quando il viandante canta nell'oscurità, rinnega la propria apprensione, ma non per questo vede più chiaro.>>
Sigmund Freud, Inibizione, sintomo e angoscia (1925), in S.Freud, Opere, v. 10, 1924-1929, Boringhieri, Torino 1978, a cura di C.L.Musatti; pp. 245-246